La decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo ha suscitato contrapposte prese di posizione, e prevale tra quanti si attendevano una decisione definitiva l’impressione che la Consulta abbia voluto guadagnare tempo e riservarsi l’ultima parola sul punto solo se costretta (chiare le parole di V. Zagrebelsky, “Se la Corte sceglie di non decidere”, su La Stampa del 16 aprile). Dar tempo al Legislatore, come insegna la vicenda Cappato, è in gran parte inutile in questo paese e l’ostinazione con cui la Corte applica un rigido self-restraint in casi come questo è il segno che anche questa partizione della Costituzione dovrebbe essere ampiamente rimaneggiata per conferire all’Alto consesso i poteri di intervento che la modernità e il consolidarsi di una legislazione multilivello (regionale, nazionale, europea, sovranazionale) esigerebbero ormai.

Certo la presenza di un ministro della Giustizia di altissimo spessore induce, questa volta, a qualche speranza. Se non fosse che l’oculato e misurato comunicato stampa della Consulta evoca scenari tutt’altro che rassicuranti circa la possibilità di una reale riforma; soprattutto in presenza di una legislatura al suo secondo quadrante e con una maggioranza eterogenea e fortemente contrapposta sui temi della giustizia. Veniamo al pronunciamento della Corte, o meglio, all’anticipazione delle motivazioni a sostegno della dilazione temporale concessa al Parlamento (maggio 2022). Poche righe che, per un verso, hanno dato forza alle tesi abolizioniste e, per altro, hanno lasciato un barlume di speranza ai teorici dell’oltranzismo sanzionatorio. Una scelta, certo, non casuale che concede al legislatore poche opzioni sul versante dell’ergastolo ostativo, ma che gli lascia mano ampia sul crinale della collaborazione di giustizia. Il regime attuale è chiaro: se sei mafioso e non collabori non puoi accedere alla liberazione condizionale. Questo regime è, secondo il giudizio già anticipato dalla Corte, incostituzionale perché «…tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Punto e a capo.

Sennonché la Consulta non si è limitata a questo rilievo sulla singola norma – con un contegno per così dire ortodosso e in linea con le sue funzioni – ma è andata oltre constatando che «… l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». Ragione per cui si deve «consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». Qui la questione si complica, e non di poco. Si prefigura una sorta horror vacui, ossia il timore che – rimuovendo il divieto per i condannati per mafia – si possa aprire una falla nell’intero sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Una valutazione di scenario certamente politica, anche se non irrituale nella giurisprudenza della Corte.

Veniamo alla parole. Il tema della «peculiare natura» del delitto di mafia introduce argomenti e suggerisce riflessioni molto ampie che, in questa sede, possono essere solo menzionate. È chiaro che, negli ultimi tre decenni, si è costruito non solo un binario sanzionatorio, processuale e penitenziario alternativo a quello applicato ai reati ordinari, ma si sono anche poste le basi per una più profonda classificazione dei detenuti distinguendoli non sulla scorta della loro personalità, ma delle condotte di cui rispondono. Un approccio antropologico radicale ed esclusivo fondato su una sorta di teorema per cui il mafioso non si rieduca mai, almeno che non diventi un pentito. Secondo questo pensiero solo la collaborazione di giustizia può smentire la presunzione assoluta che avvinghia il condannato per mafia, poiché l’umanità del mafioso non è emendabile in alcun modo e ogni atteggiamento remissivo durante la sua detenzione è una mera finzione. Libri di basso conio, film, serie televisive, interviste, dichiarazioni di asseriti esperti hanno alimentato e sostenuto questa presunzione conseguendone la inevitabile implementazione normativa; proprio quel radicamento legislativo con cui le Corti nazionali ed europea sono ora chiamate a fare in conti tra mille dubbi e cautele.

Per sviluppare un dibattito sul punto che coinvolge l’etica del legislatore, la sua capacità di costruire un sistema normativo scevro da suggestioni, campagne di stampa e connessi carrierismi, occorrerebbe trovare un punto di riflessione in comune. Punto di riflessione che, al momento, semplicemente non esiste. Talmente sedimentata è la convinzione che semel mafioso semper mafioso – ossia che la mafia sia innanzitutto una scelta esistenziale e interiore irretrattabile e non uno dei modi (neppure il più conveniente) per arricchirsi illecitamente – che in questa impostazione è impossibile ritenere che il carcere possa davvero emendare, correggere, purgare, risollevare. Solo se ti penti e collabori, solo allora lo Stato può fidarsi di te, perché compi una scelta incompatibile con il tuo status interiore, rinnegandolo.

Uno stereotipo vetero-antropologico, ovviamente, ma ampiamente e agguerritamente sostenuto da un manipolo di agitatori più o meno interessati. Ecco la Corte, con le poche parole di quel comunicato, sembra voler infrangere definitivamente il muro di questo teorema e riportare al centro della discussione l’idea, democratica e costituzionale, che non si possono creare correlazioni tra pena e pentimento o generalizzazioni tra mafia e collaborazione di giustizia. Eppure il punto di crisi dell’assolutismo carcerario sarebbe abbastanza evidente: se la detenzione non corregge e non rieduca di per sé, ci si dovrebbe chiedere il pentimento così auspicato da quali pulsioni interiori deriva. Se il trattamento non aiuta l’emenda interiore, perché la delazione dovrebbe meritare una così decisa considerazione. In fondo sono, sono state quasi sempre, scelte di mero interesse. L’ergastolano collabora, quasi sempre, perché soffre la detenzione e la sua durezza. Ma questo cosa abbia a che vedere con la Costituzione e con la funzione rieducativa della pena, non è chiaro.

Certo si può e si deve conservare l’importanza della collaborazione di giustizia in tema di mafia che, però, già l’ordinamento (dal 1991) favorisce e incoraggia. Impedire la concessione personalizzata e motivata dei benefici carcerari da parte del giudice di sorveglianza sino a quando non si collabori è un modo per ammettere che il carcere è uno strumento di pressione e di coercizione e non il luogo della rieducazione. Ecco chi sostiene le ragioni infrante dalla Corte costituzionale dovrebbe uscire dalla penombra dei giudizi morali e delle valutazioni antropologiche e dire la verità sul punto. Certo non guasterebbe prima aver letto qualcosa di serio e proveniente da ambienti scientifici non contaminati dal sospetto, a esempio Frederick Schauer, Di ogni erba un fascio. Generalizzazioni, profili, stereotipi nel mondo della giustizia, Cambrigde Mass., 2003, tra.it. 2008. Ma per troppi è chiedere troppo.