Con un comunicato stampa del 15 aprile la Corte costituzionale ci ha messo al corrente che sta esaminando una delicatissima questione relativa ai condannati all’ergastolo per reati di mafia; in particolare quei condannati che, non avendo collaborato con la giustizia, non possono usufruire della liberazione condizionale, cioè della possibilità di essere messi in libertà dopo avere scontato 26 anni di pena. Più in generale il divieto vale anche per l’ammissione agli altri benefici penitenziari, quali semilibertà, lavoro all’esterno, liberazione anticipata. Quanto ai permessi premio, il divieto era già stato dichiarato illegittimo dalla sentenza della Corte n. 253 del 2019, nel caso in cui, sia pure in assenza della collaborazione con la giustizia, fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata. Come si vede, la disciplina in materia è tutt’altro che semplice, anzi direi che è piuttosto contorta.

Il tema è quello del cosiddetto ergastolo “ostativo”, frutto velenoso delle varie stagioni dell’emergenza vissute dal diritto penale a partire dai primi anni Novanta. Frutto velenoso perché, in assenza di collaborazione con la giustizia, impediva ai condannati all’ergastolo di accedere ai benefici penitenziari, anche se avevano dato prova di sicuro ravvedimento. Ma soprattutto per la ragione di fondo che i divieti di accesso ai benefici penitenziari erano collegati alla pericolosità astratta di reati particolarmente gravi, senza prendere in considerazione la situazione personale dei condannati. Poteva cioè accadere che l’accesso ai benefici penitenziari venisse rifiutato a un condannato all’ergastolo che aveva già scontato 20 o 30 anni di pena sulla sola base della astratta pericolosità dei reati commessi, anche se ormai era persona completamente diversa rispetto al momento in cui aveva commesso il reato, se non era più socialmente pericoloso, se era più che meritevole di essere riammesso nella società libera.

L’ergastolo “ostativo” era dunque l’unica pena perpetua, “a vita”, esistente nel sistema penale, mentre il condannato all’ergastolo “ordinario” dopo avere scontato almeno 26 anni di pena può esser ammesso alla liberazione condizionale quando abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. Ebbene, nel suo comunicato la Corte preannuncia che la disciplina dell’ergastolo ostativo è costituzionalmente illegittima, perché in contrasto, tra l’altro, con i principi costituzionali secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbono tendere alla rieducazione del condannato”, e con l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che pone il divieto di “pene o trattamenti inumani o degradanti”.

L’abolizione dell’ergastolo, propugnata e attesa da decenni dalla stragrande maggioranza degli studiosi e degli operatori di diritto penale e di diritto penitenziario, è una svolta di grande rilievo, che comporta incisive ricadute sull’intero sistema delle pene e sulla stessa organizzazione penitenziaria. La Corte ha opportunamente avvertito l’esigenza di rinviare per un anno, sino a maggio 2022, la decisione ufficiale sulla incostituzionalità dell’ergastolo, per consentire al legislatore di predisporre i necessari interventi legislativi che tengano conto “della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso e delle relative regole penitenziarie”, ed anche per “preservare” gli eccezionali vantaggi processuali in tema di contrasto e di repressione della criminalità organizzata conseguiti grazie ai collaboratori di giustizia.

Vari commentatori hanno sollevato critiche e manifestato insoddisfazione per la dilazione della decisione della Corte, rilevando che in altre occasioni la stessa Corte aveva insistito sugli ampi poteri del magistrato di sorveglianza di valutare in concreto il percorso di rieducazione e risocializzazione dei condannati all’ergastolo ai fini della concessione dei benefici penitenziari. Ritengo che la Corte abbia agito saggiamente manifestando il proposito di coinvolgere il Parlamento negli interventi legislativi conseguenti all’abolizione dell’ergastolo, senza scaricare unicamente sui magistrati di sorveglianza la responsabilità di concedere o rifiutare l’accesso ai benefici penitenziari. Al riguardo si deve tenere presente che i condannati all’ergastolo sono attualmente circa 1750, concentrati in pochi istituti penitenziari, per cui la competenza a esaminare le loro posizioni risulterebbe concentrata su un numero ristretto di sedi della magistratura di sorveglianza, insufficienti per valutare in tempi brevi la situazione giuridica di centinaia di ex ergastolani.

Ma i motivi della dilazione della Corte non si esauriscono in questi tutt’altro che marginali profili organizzativi. L’abolizione dell’ergastolo avrà ricadute sull’intero sistema sanzionatorio, che dovrà essere sottoposto ad una profonda revisione per rendere l’attuale misura delle pene dei singoli reati proporzionata ad un tetto massimo che per i reati più gravi non sarà più l’ergastolo, ma trenta anni di reclusione. Lavoro di revisione di grande complessità, che spetta necessariamente al potere legislativo e che potrebbe essere l’occasione per riservare la pena carceraria ad una ristretta categoria di reati di particolare gravità e di condannati socialmente molto pericolosi, prevedendo nella legge penale una vasta gamma di sanzioni alternative alla pena detentiva. Nello stesso tempo si conseguirebbe l’obiettivo, che i cultori di diritto penale invano predicano da decenni, di un carcere popolato da non più di 10-15.000 detenuti, destinatari di programmi e percorsi di effettivo recupero e risocializzazione.