1. Il 23 marzo la Corte costituzionale deciderà la sorte dell’ergastolo ostativo alla concessione della liberazione condizionale. Sarà un’udienza pubblica, grazie all’intervento della parte privata opportunamente ammessa con decreto del Presidente della Consulta: la sua tardiva costituzione, infatti, era dipesa dalle restrizioni anti-Covid che avevano impedito al difensore di recarsi in carcere ad acquisire per tempo la procura speciale dell’assistito, Salvatore Pezzino.

Sarà un’udienza partecipata anche dal Governo tramite l’Avvocatura dello Stato e – in forma esclusivamente cartolare – da Antigone, Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, L’Altro Diritto, Macrocrimes, Nessuno Tocchi Caino: le loro memorie, infatti, sono state ammesse e acquisite al fascicolo di causa con decreto del Presidente Coraggio, su parere del giudice relatore Zanon. Ci sarà anche un convitato di pietra, la Corte di Strasburgo, che ha già accertato l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con l’art. 3 CEDU che vieta le pene crudeli, inumani e degradanti (sent. 13 giugno 2019, Viola c. Italia n.2).

2. È una dialettica processuale significativa. Nel 1974, chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’ergastolo comune, la Corte decise in totale assenza di contraddittorio. Allora, benché sollevata da una corte d’assise, su eccezione del pm, con l’adesione della parte civile e dei tre imputati, nessuno, nemmeno il Governo, si costituì davanti alla Consulta. Ne derivò, per questo, una stringatissima sentenza di rigetto (la n. 264/1974). Oggi accade l’opposto. Merito delle nuove norme integrative del processo costituzionale che hanno introdotto l’amicus curiae: la possibilità per formazioni sociali e soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla quaestio, di presentare opinioni scritte. Ma la novità va oltre il mero dato normativo.

La partecipata udienza del 23 marzo, infatti, segnala la crucialità del tema all’esame della Corte, con tutte le sue domande di senso: se per Costituzione la pena mira al reinserimento del reo nella società, come può ammettersi il carcere a vita? Se è criterio costituzionalmente vincolante valorizzare i progressi del condannato durante l’esecuzione della pena, come può giustificarsi un regime ostativo che nega al giudice ogni valutazione individualizzata? Se il lungo trascorrere del tempo può comportare trasformazioni rilevanti nella personalità del detenuto e nel contesto esterno al carcere, su quali basi poggia una presunzione assoluta di pericolosità sociale che inchioda, per sempre, il reo al suo reato? Se il diritto al silenzio è espressione del diritto alla difesa e ad un equo processo, come può sanzionarsi il rifiuto di collaborare con la giustizia? Specialmente nella sua variante ostativa, si conferma così che «l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere» (Papa Bergoglio).

3. È merito non di un eccentrico e periferico tribunale di sorveglianza ma della Sez. I penale di Cassazione aver investito del problema la Corte costituzionale, seguendo strategie argomentative robuste e persuasive, già illustrate su queste pagine (Il Riformista, 9 luglio 2020). È lo stesso giudice che, con analoga iniziativa, ha aperto una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, provocando la sent. n. 253/2019. Con essa la Consulta ha riconosciuto anche agli ergastolani ostativi la facoltà di chiedere – e non il diritto di ottenere – un permesso premio, dopo almeno 10 anni di detenzione, comunque condizionato a un severo regime probatorio e al vaglio rigoroso dell’autorità giudiziaria.

Ora in gioco è la liberazione condizionale, che della pena è causa estintiva dopo 26 anni di detenzione e qualora il reo abbia dato prova di «sicuro ravvedimento». Secondo la Consulta, è proprio la sua possibile concessione a rendere costituzionalmente accettabile la pena perpetua, perché la liberazione condizionale «consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile» (sent. n. 264/1974). Questa acrobatica quadratura del cerchio – che salva l’ergastolo purché non sia un ergastolo – non vale però per la condanna a vita di chi ha commesso un reato associativo incluso nella blacklist dell’art. 4-bis, 1° comma, dell’ordinamento penitenziario: agli ergastolani ostativi non collaboranti, infatti, la liberazione condizionale è preclusa. Da qui la principale censura della Cassazione: se la liberazione condizionale è l’unico istituto che, in virtù della sua esistenza nell’ordinamento, salva la costituzionalità dell’ergastolo, «vale evidentemente la proposizione reciproca» (sent. n. 161/1997).

4. Come fa nel suo intervento la parte privata, anche gli amici curiae depositati a Corte argomentano l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Tutti, nessuno escluso. Si tratti delle memorie presentate da associazioni militanti (Antigone, Nessuno Tocchi Caino), da centri studi universitari (L’Altro Diritto, Macrocrimes) o da un soggetto istituzionale (il Garante nazionale). È una convergenza significativa che la Consulta farà bene a non sottovalutare.

I dati statistici ufficiali, forniti dal Garante nazionale, attestano poi la natura tutt’altro che marginale della quaestio sottoposta alla Corte costituzionale: dei 1.800 ergastolani in carcere, 1.271 (pari al 71%) sono ostativi e il loro numero, negli ultimi 15 anni, è in costante crescita. Dunque, oggi l’ergastolo è principalmente un ergastolo privo di liberazione condizionale. Cioè detenzione fino alla morte. Il che spazza via l’abusato luogo comune dell’ineffettività del carcere a vita: quelli ostativi, infatti, sono ergastolani senza scampo e senza speranza.

5. La decisione di costituirsi in giudizio a difesa dell’ergastolo ostativo è del precedente Governo. Scelta non obbligata, dunque tutta politica, trattandosi giuridicamente di intervento facoltativo e libero nell’opzione pro o contra la legittimità della legge impugnata. C’è da aspettarsi che l’Avvocatura dello Stato giochi la carta disperata della political question, chiedendone l’inammissibilità: rimprovererà cioè alla Cassazione di aver contestato insindacabili scelte legislative di politica criminale, giustificate dalla necessità di contrasto alla criminalità organizzata. Sarà come calciare la palla fuori dal campo di gioco.

Eppure l’Avvocatura non può ignorare il principio costituzionale «della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena» (sent. n. 148/2019). Né che il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità è assoluto e incondizionato, anche in caso di «pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» (art. 15 CEDU). Né che la stessa Commissione antimafia ha preso atto, alla luce della giurisprudenza più recente delle Corti dei diritti, che «la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la CEDU» (relazione del 20 maggio 2020). Sono cose che la nuova Guardasigilli Cartabia sa bene, avendo concorso come giudice costituzionale alla già citata sent. n. 253/2019: fosse dipeso da lei, immagino che l’Avvocatura dello Stato avrebbe seguito ben altro spartito.

6. Serpeggierà tra i giudici costituzionali la tentazione della c.d. incostituzionalità prospettata, tecnica inventata nel noto caso Cappato: accertata l’illegittimità, la Corte ne rinvia la formale dichiarazione ad altra lontana udienza, dando così tempo al legislatore di riformare l’ergastolo ostativo. Alle tentazioni è bene non cedere. Specie in materia di libertà personale, il sindacato costituzionale – di norma – deve assecondare la sua natura contro-maggioritaria. Infatti, il tempo concesso a un legislatore riluttante, che molto ne ha già sprecato, allungherebbe indebitamente la reclusione di Salvatore Pezzino e di tutti gli ergastolani in condizione di chiedere (e magari ottenere) la fine di una pena altrimenti senza fine. Una reclusione che dura già da decenni. Se posso, inviterei a non dimenticarlo.