Il sette ottobre il panel di cinque giudici della Cedu ha deciso: è inammissibile la richiesta del governo italiano di assegnare alla Grande Camera di Strasburgo il caso ‘Viola v. italia’ in materia di ergastolo ostativo. L’esito, seppur non scontato, era assai prevedibile. L’art. 43 della convenzione Edu, infatti, stabilisce che siano discusse alla Grande Camera soltanto le questioni che presentino seri dubbi interpretativi. La giurisprudenza della Cedu è, invece, ormai costante da molti anni, fin dal 2013 quando con ‘Vinter v. Regno Unito’ aveva sancito il principio che è inumana e degradante la carcerazione senza prospettiva di rilascio, la pena senza speranza.

E’ il concetto ribadito dalla pronuncia della prima Sezione della Cedu nel ricorso presentato da Marcello Viola che esclude, ai sensi dell’art. 3 della convenzione, la legittimità di una condanna all’ergastolo c.d. ‘effettivo’, ‘life imprisonment without hope’.

La Corte Europea non si pone in termini assoluti contro l’ergastolo; non esprime un giudizio di inadeguatezza della pena perpetua rispetto ai parametri dei diritti fondamentali, ma censura una carcerazione che sia mutilazione definitiva di vita senza aspirazione di reinserimento e di riabilitazione, che neghi il senso della buona condotta in carcere, della adesione alle regole del vivere sociale, del cambiamento, che precluda, in ultima analisi, una concreta prospettiva di libertà (prospect of release o possibility of review).

Non inficia neppure la validità della collaborazione con la giustizia quale parametro per attestare l’intervenuta dissociazione del ristretto dall’ambiente sodale originario ma ritiene che il distacco dalla mafia possa essere provato anche diversamente, attraverso la valutazione concreta dei progressi trattamentali.

Bene, dunque, se la persona detenuta offre una collaborazione utile con la giustizia, ma se non lo fa, la legge deve comunque prevedere – pena la violazione della Convenzione EDU – ulteriori possibilità perché la sua riabilitazione sia rivalutata e le consenta, in concreto, una aspirazione di ritorno alla vita libera.

Il 22 ottobre, anche la Consulta ha bocciato l’art. 4 bis: è incostituzionale nella parte in cui non prevede che sia possibile concedere un permesso alla persona detenuta che non abbia collaborato con la giustizia, se sono cessati i collegamenti con l’associazione di appartenenza e la pericolosità sociale e se ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione. La presunzione assoluta di pericolosità non esiste più. C’è ora una presunzione relativa che il magistrato di sorveglianza può superare attraverso una verifica caso per caso, uomo per uomo, senza il veleno marchiante degli automatismi, oltre il reato. Anche la persona detenuta per mafia potrà, dunque, chiedere un permesso premio ma perché lo ottenga è necessario che il magistrato comprovi su solidissime, quasi inarrivabili, basi istruttorie che il ristretto non sia più soggetto pericoloso. A tal fine interpellerà, in carcere, direttori, educatori, psicologi e, fuori, questure, comandi dei carabinieri e dda competenti per territorio.

Se le informazioni di tali organi saranno rassicuranti, solo allora il giudice concederà al detenuto l’atteso beneficio. E allora? Di cosa dovremmo dolerci? Che la pena ha raggiunto il suo scopo costituzionale e ha portato una persona reclusa per gravi crimini a sposare modelli positivi di vita? Che ‘la rieducazione del condannato’, cui è finalizzata la privazione della libertà, sia stata raggiunta? Che un uomo che ha commesso un errore terribile sia stato recuperato e venga restituito alla società? Ma che ipocrisia è questa? Dov’è scritto nella Carta fondamentale che ci sono persone irrecuperabili? Con un marchio di infamia indelebile? E la patente di redenzione attribuita a chi collabora con la giustizia è così tranquillizzante? Ma quel Giovanni Brusca, che azionò il telecomando della strage di Capaci e decretò la morte per strangolamento del piccolo Di Matteo dopo oltre tre anni di prigionia, che già nel 2002 accedeva ai permessi premio, perché oggi, a due anni dal suo fine pena, non è meritevole della detenzione domiciliare? Qualcosa deve aver interrotto la sua progressione trattamentale, il suo cammino risocializzante. La sua patente di redenzione è scaduta? O è semplicemente illogico attribuire bonus di affidabilità a norma di legge? In carcere ci sono esseri umani inclini all’errore (anche all’orrore!) e all’emenda. E non c’è un criterio normativo assoluto idoneo a decifrare l’animo umano. E allora ai giudici di sorveglianza sia data fiducia e la responsabilità che assegna loro l’ordinamento penitenziario di tutela e di garanzia dei percorsi di recupero offerti al ristretto e dallo stesso compiuti in rapporto alle esigenze di sicurezza sociale e di ordine pubblico.

Maria Brucale

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