«Signor Presidente le chiedo la grazia: fucilatemi». Salvatore Cappello, detto Turi, è un boss della mafia catanese. Ex, precisa lui, da almeno dieci anni. È in carcere da 29 anni e da 28 subisce il regime dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Che significa “carcere impermeabile”, in modo totale con l’esterno, un solo colloquio al mese con i parenti dietro a un vetro e pochi contatti, sempre con le stesse persone all’interno. E una serie di restrizioni che ti soffocano, regole che si avvicinano sempre più alla tortura. E a lungo andare diventano pena di morte. Soprattutto per quelli che, come lui, hanno scritto sul proprio fascicolo “fine pena 9999”, cioè fine pena mai.

Deve essere chiaro: in Italia esiste la pena di morte ed esiste la tortura. Al “fine pena mai”, cioè l’ergastolo ostativo, quello che impedisce di vedere la luce in fondo al tunnel, sono condannati 1.267 detenuti. Sono quelli che lo Stato non ha il coraggio di uccidere, perché formalmente la pena capitale in Italia è stata abolita e anche perché non sarebbe politicamente corretto farlo. Ma quello Stato che mostrò debolezza e non fu capace di sconfiggere la mafia, che intanto assassinava Falcone e Borsellino, né di arrestare i boss latitanti, mostrò la faccia feroce in quel 1992 trasformando l’ergastolo in pena di morte per alcuni. Per quelli condannati per un certo tipo di reati, mafia, terrorismo, narcotraffico. E l’applicazione di un certo articolo dell’Ordinamento penitenziario, il 41 bis, in tortura quotidiana per 751 detenuti. Che sono dei veri murati vivi.

Così il boss catanese Turi Cappello ha preso carta e penna e, dal carcere dell’Aquila, ha scritto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Chiede la grazia. La grazia di poter morire. «Non voglio suicidarmi – scrive – siete voi che dovete eseguire la sentenza». Non vuole suicidarsi perché l’ha visto fare tante volte, i compagni appesi al bordo del letto a castello o soffocati nel sacchetto di plastica come Gabriele Cagliari o riempiti di tranquillanti raccolti giorno dopo giorno in infermeria. Sono ormai migliaia le persone che si sono tolte la vita in carcere. No, lui vuol essere fucilato nel cortile della prigione. Vuol morire una volta sola, non giorno dopo giorno e ogni giorno, in una vita che è a mala pena sopravvivenza, così come è ora.

La lettera – diffusa dall’associazione Yairaiha Onlus, che si batte contro l’ergastolo ostativo – è un grido di dolore, ma non di disperazione. Mostra una certa arroganza, ma anche molta dignità. Turi Cappello è un uomo che, prima di arrendersi, pone problemi seri. Prima di tutto la questione che riguarda i processi di criminalità organizzata. Che sono tenuti insieme da quel reato associativo, il 416 bis, introdotto dopo l’uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, che pesa come un macigno nei calcoli delle pene nelle sentenze. Quasi tutti i boss mafiosi lo hanno evitato quando hanno prima o poi rotto il vincolo di solidarietà e quindi tradito i propri complici per salvare se stessi. Non chiamiamoli “pentiti”, perché non si sono pentiti proprio di niente. Sono stati in tanti, da Totuccio Contorno in avanti, ad aver usato la libertà concessa dallo Stato per continuare a delinquere e spesso consumare le proprie vendete, anche con nuovi omicidi. Ma sanno ben sfruttare i propri vantaggi, e non conoscono il 41 bis, spesso neanche il carcere.

Ma che speranza di essere creduti, e quindi magari di veder alleggerito il regime carcerario, hanno coloro che vogliono rompere i sodalizi del passato senza tradire? O per coloro che, essendo in carcere ormai da venti o trent’anni, sono rimasti fuori dai giri e non hanno più niente da raccontare ai magistrati? Turi Cappello va sul pesante. Confronta la propria situazione a quella di un mafioso “pentito”, o magari di un pedofilo non mafioso, ma responsabile di fatti gravissimi. Lo spiega in modo chiaro. «Tu hai preso 30 anni (senza uccidere nessuno) per estorsione e associazione? Con l’art. 4 bis (reati ostativi, ndr) li sconti tutti senza benefici; ma se tu hai ucciso un bambino, lo hai violentato, sconti 20 anni e niente 41 bis, niente restrizioni».

C’è anche, ed è ovvio, l’aspetto umano, in questa lettera. E immaginiamo le boccucce sdegnate dei travaglisti di complemento, nel sentir parlare dell’impossibilità, per il detenuto al 41 bis, di stringere la mano del padre o della compagna, di accarezzare i capelli dei figli. I quali, tra l’altro, dopo tutti questi anni, da bambini si sono nel frattempo fatti uomini e donne. O di poter fare quella telefonata urgente e disperata perché hai saputo che una persona a te cara è in fin di vita. Quella chiamata che quell’essere schifoso che ha stuprato e ucciso un bambino può fare, perché è schifoso ma non si è associato con le persone sbagliate. È questa la vita che devo fare fino alla morte? Conclude la lettera di Turi Cappello. «E allora facciamola finita subito, fucilatemi! Ps: non restituite il corpo alla mia famiglia, sarebbero per loro altri problemi. Grazie». Presidente Mattarella, spero che Lei risponda.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.