1. Secondo la Costituzione, puniamo qualcuno per averlo poi indietro, possibilmente cambiato: alle corte, questo sta a significare che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27, comma 3). Ecco perché, da sempre, l’ergastolo è pietra d’inciampo. Come può, infatti, mirare al recupero sociale una detenzione a vita, dunque fino alla morte del reo?

2. Per l’ergastolo comune, che pure il codice definisce pena «perpetua» (art. 22), la quadratura del cerchio è stata trovata nel 1962, estendendo per legge anche ai condannati a vita la liberazione condizionale: la possibilità cioè, per l’ergastolano che abbia dato prova di sicuro ravvedimento, di uscire di galera dopo ventisei anni di detenzione (riducibili fino a ventuno grazie al meccanismo degli sconti di pena, se meritati). Scarcerato, vivrà in libertà condizionata per cinque anni, trascorsi i quali – se avrà rigato dritto – la sua pena sarà estinta.
Ecco perché quando, anni dopo, l’art. 22 del codice penale venne impugnato davanti alla Corte costituzionale, questa respinse la quaestio come infondata: non essendo più perpetua, la pena dell’ergastolo incapsula una valenza risocializzatrice (sentenza n. 264/1974). Traduco? Secondo quella sbrigativa decisione, l’ergastolo non vìola la Costituzione perché non è più ergastolo. E può continuare a esistere in quanto tende a non esistere.

È un sofisma di corto respiro. Capovolto, dimostra che il carcere a vita è certamente incostituzionale: dunque, tutti i colpevoli che hanno scontato un ergastolo fino a morirne sono stati sottoposti a una pena che la Costituzione ripudia. È accaduto. Continua ad accadere anche oggi: a settembre 2019, dietro le sbarre si contavano 1790 ergastolani, molti in galera da oltre ventisei anni.

3. Per la stragrande maggioranza di essi (1255, pari al 70,1%), quel sofisma non può neppure essere invocato. Sono gli «ergastolani senza scampo» (il copyright è di Adriano Sofri) perché condannati a vita per uno dei gravi reati associativi inclusi nella blacklist compilata nell’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario. In gergo, si chiamano ergastolani ostativi. La loro è davvero una condanna a vita: se non collaborano utilmente con la giustizia, ad essi è automaticamente precluso l’accesso alla liberazione condizionale. Per loro, e solo per loro, ogni giorno trascorso è un giorno in più (e non in meno) di detenzione. Per loro, e solo per loro, l’espressione gergale «finire dentro» vale alla lettera, nel senso inedito e senza speranza di chi in carcere è destinato a finire, cioè a morirvi.

L’ergastolo torna così ad essere quello che è sempre stato: l’ambiguo luogotenente della pena capitale, «una pena di morte nascosta» (come lo chiama Papa Francesco). La novità è che, ora, l’ergastolo ostativo sembra arrivato al capolinea. È del 3 giugno scorso, infatti, l’ordinanza con cui la Prima Sezione penale della Cassazione dubita della sua conformità a Costituzione. Le domande precedono sempre le risposte, e quelle formulate dalla Cassazione sono davvero serrate: vediamole.

4. La prima è particolarmente insidiosa, perché usa parole spese in passato dalla stessa Corte costituzionale: «se la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca» (sentenza n. 161/1997). Tertium non datur. E così la stampella argomentativa, fin qui adoperata a puntellare l’ergastolo comune, viene meno per la sua variante ostativa. Come un boomerang, torna indietro ritorcendoglisi contro.

5. La seconda domanda chiama in causa la Corte di Strasburgo. La sua giurisprudenza non è contraria a pene perpetue, purché riducibili de jure (ad esempio, attraverso la liberazione condizionale) e de facto (dovendosi riconoscere all’ergastolano una prevedibile e concreta possibilità, ancorché condizionata, di scarcerazione). Diversamente, la detenzione a vita vìola il divieto di pene inumane o degradanti (art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).

Qui la Cassazione invoca un diretto precedente contro l’Italia, la sentenza Viola n° 2, pronunciata un anno fa, che ci ha condannati proprio in ragione del regime ostativo applicato all’ergastolo: per i giudici europei, infatti, è un meccanismo che «limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena». Negando il diritto alla speranza dell’ergastolano, ne degrada la dignità che inerisce ad ogni persona, anche criminale certificato, perché la dignità umana «non si acquista per meriti né si perde per demeriti» (così Gaetano Silvestri, già Presidente della Corte costituzionale). Precedente non trascurabile, la sentenza Viola n° 2, riguardando «una vicenda pienamente sovrapponibile» a quella oggetto del mio procedimento, scrive la Cassazione. Dunque, nei suoi esiti interpretativi, è doppiamente vincolante: perché espressione di un orientamento consolidato a Strasburgo e perché calco esatto della quaestio ora promossa davanti alla Corte costituzionale.

6. L’ultimo quesito posto alla Consulta ne chiama in causa, di nuovo, un obbligo di coerenza giurisprudenziale. Qui, il riferimento è alla ratio decidendi della sua sentenza n. 253/2019, che ha aperto una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria riconoscendo la possibilità di domandare – e non il diritto di ottenere – il beneficio del permesso premio (anche) all’ergastolano ostativo non collaborante. È una sentenza che ha smontato la presunzione legale secondo cui chi non parla, pur potendolo fare, è socialmente pericoloso. Per legge, infatti, quel silenzio è sempre omertoso, prova invincibile della permanente adesione del reo al sodalizio criminale. Non contano le ragioni del suo silenzio (magari dettato dal timore di ritorsioni a danno di sé o dei propri familiari). Non conta il suo percorso rieducativo fatto durante gli anni di reclusione (anche se ne attesta un’autentica revisione critica delle pregresse scelte criminali). O ti penti o rimani in cella per sempre.

Con la sua sentenza la Corte costituzionale ha censurato tale automatismo. Perché la collaborazione può essere premiata, ma non estorta con il ricatto di una detenzione più afflittiva. Perché nega, a priori, rilevanza giuridica al processo di risocializzazione del detenuto. Perché il decorso del tempo in prigione può contraddire la presunta «immutabilità, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere». È il giudice di sorveglianza, dunque, a dover valutare, caso per caso, entrambi i fattori, al fine di concedere o meno il beneficio penitenziario richiesto dal reo non collaborante. A questa ratio decidendi la Cassazione fa appello. Una ratio che non può non valere anche per la liberazione condizionale, traguardo di un percorso trattamentale di cui il permesso premio è solo il punto di partenza, altrimenti sterilizzato nella sua «funzione pedagogico-propulsiva».

7. Sono pronto a scommettere che l’ordinanza della Cassazione farà da apripista ad altre analoghe impugnazioni da parte di Tribunali di sorveglianza non pavidi. Se accadrà, le relative questioni di costituzionalità potranno arricchirsi di ulteriori profili. Ad esempio, la violazione del diritto di difesa (art. 24, comma 2), perché il diritto al silenzio garantito nel processo si rovescia nell’obbligo di collaborare in sede di esecuzione della pena. O la violazione del divieto, assoluto e incondizionato, della morte come pena (art. 27, comma 4), perché l’ergastolo ostativo alla concessione della liberazione condizionale è una pena fino alla morte. O il divieto di tortura (artt. 13, comma 4, e 117, comma 1), che la pertinente convenzione ONU del 1984, ratificata anche dall’Italia, definisce come «ogni atto con il quale viene intenzionalmente inflitto ad una persona un grave dolore o sofferenza, fisica o mentale, per propositi quali ottenere da essa […] informazioni o confessioni». Da ultimo, l’ottusità di un simile regime ostativo può generare un autentico paradosso kafkiano, nel caso non improbabile di errore giudiziario: solo il colpevole, infatti, può utilmente collaborare con la giustizia, non l’innocente, che – condannato all’ergastolo ostativo – dovrà rassegnarsi a morire murato vivo. Amen.

8. Prima che la contraerea preventiva dei soliti noti inizi a sparare la sua mediatica potenza di fuoco, censurando come improvvida l’iniziativa della Cassazione, tentando così di condizionare i giudici costituzionali, va segnalata un’ulteriore novità. Se possibile, ancora più clamorosa.
È la stessa Commissione parlamentare antimafia, nella sua relazione approvata il 20 maggio scorso, a prendere atto – alla luce della giurisprudenza più recente delle due corti dei diritti – che «la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo».

Seguendo indicazioni già presenti nella sentenza n. 253/2019, la relazione prefigura «nuove soluzioni normative», che introducano «un più rigoroso procedimento di accertamento da parte della magistratura di sorveglianza» circa i presupposti per la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, quando richiesti dal condannato che non collabori con la giustizia. Di tali proposte di riforma si può discutere. Ma ciò che conta, qui e ora, è il loro assunto di partenza: l’incompatibilità, costituzionale e convenzionale, di un ergastolo senza scampo.

9. È dunque iniziato il countdown: per giudicato costituzionale o per scelta legislativa (o, com’è più probabile, perché l’uno trascinerà l’altra), sull’ergastolo ostativo calerà il sipario. Com’è giusto che sia. È così semplice da capire, quasi elementare: se l’orizzonte costituzionale è quello del recupero del condannato alla vita sociale, allora davvero il fine della pena esige la fine della pena.