1. È una decisione che si fa attendere, quella sulla costituzionalità dell’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale. Svolta l’udienza pubblica il 23 marzo scorso, la Consulta ha poi informato che proseguirà «nella prossima settimana di lavori» la discussione iniziata in camera di consiglio. Decisione molto tesa, dunque, se tale rinvio – in ipotesi – fosse dovuta a una spaccatura interna al collegio. Su questo punta la contraerea preventiva di un dream team di procuratori della Repubblica che, contrario all’incostituzionalità, ha ripreso non a caso il suo crepitio, dedicando alla quaestio una livida attenzione del tutto assente nei mesi precedenti.

La saggia regola del “conclave”, che avrebbe voluto i giudici costituzionali uscire dalla camera di consiglio con il dispositivo della sentenza, depositata poi nelle settimane successive, a questo serve: assicurare loro il massimo di serenità possibile, ponendoli al riparo da improprie (e certamente inutili) pressioni esterne. Nel processo costituzionale, infatti, c’è un prima e un dopo in cui è legittimo discutere di ciò che la Corte decide. È chiamata a farlo la dottrina giuridica, riflettendo preventivamente sulla questione di legittimità e annotando poi la relativa sentenza. Lo fanno le parti costituite in giudizio a Corte. Possono farlo ora anche soggetti qualificati della società civile, attraverso l’istituto dell’amicus curiae introdotto nelle norme integrative del processo costituzionale. La stampa, veicolando notizie e commenti, rende fruibile all’opinione pubblica tutto questo. Dentro e fuori il Palazzo della Consulta, si assicura così una dialettica che – come insegna Platone nel Sofista – «è la scienza degli uomini liberi». Una dialettica tanto più necessaria quando, come in questo caso, è in gioco la sorte di una pena estrema perché fino alla morte.

Ma durante la camera di consiglio, la regola generale dovrebbe essere quella del silenzio, rispettoso del compito impegnativo cui sono chiamati 15 giudici che già hanno ascoltato tutto e tutti. È così che si coopera lealmente al sindacato di costituzionalità delle leggi, e non trasformandolo in un derby tra tifosi di schieramenti avversi: in questo caso, gli alfieri senza macchia dell’antimafia contrapposti alle «anime belle» (Gian Carlo Caselli su Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2021).

2. Può essere, invece, che il rinvio sia dovuto a un supplemento istruttorio legato all’inattesa soluzione prospettata, in udienza, dall’Avvocatura dello Stato. La sua tesi è di sciogliere in via interpretativa il nodo costituzionale del regime ostativo penitenziario: «far decantare ogni forma di automatismo» consentendo al tribunale di sorveglianza di verificare, caso per caso, le motivazioni per cui il reo non collabora con la giustizia. Si tratterebbe – dice l’Avvocatura – di «un’esegesi più corrispondente alla ratio delle norme», capace di bilanciare il dovere ineludibile dello Stato di assicurare ordine e sicurezza, e i principi della Costituzione e della Cedu contrari ad una pena perpetua non riducibile.

A sostegno, sono state indicate tre pronunce della Cassazione penale, successive all’ordinanza con cui la sua Prima Sezione ha sollevato la questione di legittimità. L’invito alla Corte costituzionale è di pronunciare una sentenza interpretativa di rigetto che, salvando le norme impugnate, non avrebbe però effetti vincolanti generali.
Si è data ampia eco a questa tesi, e nei giorni a seguire le critiche in merito si sono divise tra il troppo e il non abbastanza. A mio avviso, è un’attenzione immeritata e largamente ingiustificata. Il coniglio estratto dal cilindro è solo un gioco di prestigio, e i giudici costituzionali se ne accorgeranno presto.

3. Per smascherarlo, basta conoscere l’abc dell’interpretazione, leggere le sentenze richiamate e avere dimestichezza con il processo costituzionale. Interpretare la legge in modo conforme a Costituzione è un obbligo per i giudici. Obbligo che però cede il passo all’incidente di costituzionalità, se quella lettura è incompatibile con il tenore letterale della legge. Diversamente non sarebbe più interpretazione, ma creazione normativa: mestiere del legislatore, non del giudice. Lungo questi binari si è mosso, correttamente, il giudice che ha impugnato il regime dell’ostatività penitenziaria, il quale prevede la concessione della liberazione condizionale «solo nei casi in cui» gli ergastolani «collaborino con la giustizia» (artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter).

La strada del ricorso alla Corte costituzionale si raccomanda soprattutto quando in materia si è formato un «diritto vivente», cioè una consolidata applicazione giurisprudenziale che esclude, in concreto, altre soluzioni interpretative. Se in simili casi il giudice seguisse un’esegesi alternativa, la sua pronuncia avrebbe vita breve, destinata a revisione in sede d’impugnazione. Ora, che il diritto vivente in tema di reati ostativi sia nel senso di ritenere preclusa ogni misura extramurale al reo non collaborante, è fuori discussione: la stessa Consulta, per superarlo in riferimento ai permessi premio, ha ritenuto necessario manipolare il testo illegittimo della legge, non invece interpretarlo diversamente (sent. n. 253/2019).

4. Quanto alle tre recenti pronunce della Cassazione evocate in udienza (ma non citate per esteso) dall’Avvocatura, parlano d’altro. Riguardano il collaterale problema di verificare l’esigibilità o meno della mancata collaborazione con la giustizia. Già oggi e per legge, infatti, se la collaborazione è irrilevante (perché il reo nulla o poco sa, in ragione della sua limitata partecipazione al reato) o impossibile (perché già si sa tutto, in ragione dell’integrale accertamento dei fatti) non è escluso l’accesso ai benefici penitenziari (art. 4-bis, comma 1-bis). Ma non è di questo che si discute davanti alla Corte costituzionale. In gioco è un’ipotesi diversa e vietata dalla legge: un ergastolano non collaborante, cui è stata respinta l’istanza volta ad accertarne la collaborazione inesigibile, che chiede egualmente la liberazione condizionale, dopo oltre 26 anni di galera.

Il dubbio di costituzionalità nasce dalla contestata equazione legislativa secondo cui collaborazione equivale a ravvedimento (e non collaborazione equivale a pericolosità sociale). Della conseguente preclusione assoluta si evidenziano le principali criticità costituzionali e convenzionali, in linea con gli approdi più recenti delle Corti dei diritti (cfr. Il Riformista, 9 luglio 2020). Di più. Una delle tre sentenze è categorica nel negare che si possa far leva sulla nota sentenza Viola c. Italia della Corte EDU per riconoscere, già ora, l’apertura ai benefici penitenziari per chi non collabora con la giustizia, previo vaglio giurisdizionale: sono «argomenti che esulano dallo stato attuale della legislazione», espressione di «dinamiche riformatrici in atto», ma «non ancora positivamente normati» (n. 3521 del 6 novembre 2020). Per l’Avvocatura, averla invocata, più che un assist è un autogol.

5. La verità è che in udienza è andato in scena un mal riuscito cambio di strategia. La memoria scritta dell’Avvocatura puntava ad altro: all’infondatezza della quaestio, «posto che le disposizioni censurate sono pienamente giustificate» per la «particolare oggettiva gravità delle personalità criminali dei soggetti interessati». O alla sua inammissibilità, perché le censure dell’ordinanza di rimessione «si risolvono in una non condivisibile contestazione di scelte legislative di politica criminale». In ambo i casi, è come calciare la palla oltre le tribune, invece di impegnarsi in partita. Giocando una tripla (inammissibilità, infondatezza, rigetto interpretativo), l’Avvocatura rivela imbarazzo nel replicare a tono ai dubbi di costituzionalità sul tappeto. Eppure il Governo non è necessariamente il defensor legis a tutti i costi. Inerte il Parlamento, il giudizio di costituzionalità può essere anzi l’occasione per rimediare ad una persistente illegittimità costituzionale e convenzionale. Come in questo caso.