L’attesa per la decisione della Corte Costituzionale sulla legittimità dell’ergastolo ostativo ha indotto i media a occuparsi del cosiddetto “fine pena mai”, vigente nel nostro Paese nonostante sia stata abolita la pena di morte e la stessa condanna a vita. L’istituto “estraneo”, per chi non lo conoscesse, consente di tenere ristretta in carcere una persona per sempre, senza alcuna speranza che un giorno possa uscire. Unica possibilità è collaborare con la Giustizia, augurandosi che si abbia qualcosa da riferire. Ove ciò non avvenga, non vi è più alcun futuro se non quello di “marcire”, fino alla morte, in uno stato detentivo privato di qualsiasi prospettiva di rieducazione.
È la più macroscopica eccezione ai principi a cui dovrebbe essere informato il nostro sistema penitenziario, così come descritto nell’Ordinamento e nella stessa Costituzione. In questi giorni leggiamo, pertanto, i pareri di chi vorrebbe la sua eliminazione e di chi, invece, propende per la sua permanenza in nome di una difesa dello Stato dall’attacco mafioso. Dovrebbe essere una contesa in punto di diritto, ma spesso si vola basso e ci si chiede cosa sia più utile alla comunità, dimenticando che della collettività fanno parte anche le persone destinatarie dell’atroce misura: autori di altrettanto atroci delitti, ma puniti dall’Autorità giudiziaria, in nome di una legge “del taglione” che non fa onore a uno Stato civile.
Tra i difensori dell’ergastolo ostativo vi è Giancarlo Caselli che, sulle pagine del Corriere della Sera, ha spiegato che «non c’è alcun motivo di smantellare quel che funziona» perché «la mafia è viva e vegeta». A chi legge non può sfuggire l’evidente contraddizione di quanto affermato. L’istituto, inserito nella nostra legislazione nel 1992, quindi circa 30 anni fa, «funziona», ma la mafia è ancora «viva e vegeta». Se l’ergastolo ostativo fosse un veleno – e in parte lo è – chiunque se ne sarebbe già liberato, non producendo alcun effetto concreto.  Il magistrato afferma poi che se è vero che la Corte europea dei diritti dell’uomo «ha già demolito l’ergastolo ostativo con una sentenza del 2019», non è detto che la Consulta «debba – sempre e comunque – prestare incondizionato ossequio alla giustizia Europea»: una sorprendente dichiarazione che ci fa pensare ai sostenitori dell’Italexit che vogliono liberare il nostro Paese dalla “gabbia” dell’Unione europea. In tal caso, l’obiettivo sarebbe lasciare “in gabbia” a vita i condannati per alcuni delitti. Insomma, usciamo dall’Europa, ovvero ci restiamo a intermittenza, solo un po’, quando ci conviene.
Non vi è dubbio che la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta rappresentino il nemico da combattere, ma siamo certi che la strada seguita, non indicata dalla Costituzione ma da una legislazione emergenziale divenuta poi definitiva, sia quella giusta? Può uno Stato essere in continua emergenza? Oppure ha il dovere di praticare altre strade? È meglio sospendere il trattamento o intensificarlo verso coloro che si sono macchiati di gravi delitti? Giova davvero annientare la personalità del detenuto, quale deterrente per altri a non seguire la stessa strada? E non è questa una modalità del tutto contraria ai principi della nostra Costituzione e a quelli che ispirarono il legislatore del 1975 quando emanò l’Ordinamento penitenziario? Oggi sono più di 1.750 i detenuti condannati all’ergastolo in tutta Italia. In Campania sono 69. Le statistiche ci dicono che, in tutti questi anni, i numeri sono in costante aumento.
Dato, quest’ultimo, che deve ancora di più far riflettere: la strada intrapresa è quella sbagliata. Sono altre le modalità per sconfiggere – davvero e definitivamente – la criminalità organizzata ai membri della quale quale vanno tolte le etichette, dal sapore “vintage”, di «mafiosi», «camorristi» e «‘ndranghetisti» in un mondo in cui tutto è globale, compresa la delinquenza. Contrariamente a quanto sostenuto da Giancarlo Caselli, non abbiamo l’esclusiva della malavita di alto livello, ben conosciuta anche in altri Paesi, che la combattono con altri mezzi. Occorre uno Stato sociale che possa intervenire sui territori, mentre la Giustizia dovrà fare la sua parte superando finalmente la legislazione dell’emergenza, dimenticando qualsiasi istinto vendicativo e garantendo sempre e dovunque la legalità, anche nella condanna per i delitti più atroci.

I dibattiti – forse inopportuni alla vigilia di un’importante decisione della Corte Costituzionale – proseguiranno anche dopo l’esito tanto atteso. Non ci saranno vinti né vincitori, ma sempre e solo una strada da seguire: quella indicata, sin dal 1948, da coloro che abolirono la pena di morte e che certamente non volevano una pena fino alla morte.