1. Troppo, per alcuni. Non abbastanza, per altri. Si dividono così le reazioni al comunicato stampa di ieri che anticipa la decisione della Consulta sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale. Ne suggerirei un’analisi sine ira et studio in attesa di leggere, nelle prossime settimane, la sola cosa che conti davvero: il testo dell’ordinanza votata dai giudici costituzionali all’unanimità (stando ai si dice del Corriere della Sera).

2. Il dato di fondo da cui partire è nell’incipit del comunicato: «Ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione».
Il fine (rieducativo) della pena, infatti, esige la fine della pena. Perché un diritto penale liberale – come recita l’omonimo manifesto redatto dall’Unione delle Camere penali«non ammette pene perpetue, trattamenti inumani o degradanti, presunzioni di pericolosità ostative della funzione risocializzante della pena». Sono principi scolpiti nella giurisprudenza della Corte costituzionale che, fedele a sé stessa, applica oggi a un ergastolo altrimenti senza scampo. Si riconosce così un diritto alla speranza che non può negarsi a nessun condannato a vita, se non se ne vuole negare la dignità. Il diritto, cioè, di domandare l’accesso alla liberazione condizionale, dopo almeno 26 anni di detenzione, «quando il suo ravvedimento risulti sicuro» (così il comunicato stampa). Si badi: domandare, non è sinonimo di ottenere. La concessione del beneficio, infatti, resterà condizionata ad un’approfondita e prudente valutazione giurisdizionale di tutti i presupposti che la legge richiede (o richiederà).

Stracciarsi le vesti come sacerdoti nel sinedrio, perché così si minerebbero le sacrosante esigenze di difesa sociale, equivale a una mozione di sfiducia verso i giudici di sorveglianza, già chiamati quotidianamente a decisioni altrettanto difficili e pericolose. Significa anche ignorare che – dati alla mano – un percorso trattamentale aperto a misure alternative alla detenzione mira, in ultima analisi, ad impedire la recidiva e così a proteggere davvero la società.
L’alternativa di un carcere a vita, cioè fino alla morte, può animare indispettiti tweet di politici adusi al bullismo penale. Può abitare il risentimento di alcuni familiari di vittime illustri, che meritano rispetto e comprensione fino a quando non pretendono di farsi fonte normativa. Ma una pena perpetua – ci ricorda oggi la Consulta – non ha cittadinanza in Costituzione.

3. L’incostituzionalità così accertata, però, non si traduce in un «accoglimento immediato». La Corte, infatti, ha pronunciato un’ordinanza interlocutoria, non una sentenza di annullamento delle norme impugnate, preferendo differirne al maggio 2022 la formale dichiarazione. È la tecnica della c.d. incostituzionalità prospettata, forgiata per la prima volta nel noto “caso Cappato”: ora come allora, impossibile non acclarare l’illegittimità della normativa in vigore ma, nel contempo, difficile rimettere in equilibrio tutti gli interessi costituzionali in gioco attraverso l’intervento autonomo della Consulta. «Occorre un intervento legislativo». Da qui l’escamotage di rinviare la questione di un anno, chiamando il Parlamento a intervenire nel rispetto della Costituzione. Un Parlamento messo però in mora: se non lo farà nel termine indicato, sarà la Corte a rimuovere l’incostituzionalità cui non è stato posto legislativamente rimedio. Il comunicato riassume – cripticamente – le ragioni che hanno indotto la Consulta a optare per una simile tecnica, riconducibili al timore, esplicitato, che un accoglimento immediato della quaestio rischierebbe di inserirsi «in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata».

4. Per quanto solo prospettata, l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo segna, comunque, un punto di non ritorno. La sua disciplina – si legge – «è in contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione e con l’art. 3 della CEDU». L’uso verbale del modo indicativo («è in contrasto») non lascia adito a dubbi di sorta. Non si equivochi il passaggio successivo, circa la decisione della Consulta di «rinviare la trattazione delle questioni» ad altra udienza da convocarsi nel maggio 2022. Non ci sarà, allora, spazio alcuno per rimettere in discussione quanto ora già accertato e già comunicato. Semmai, in quell’occasione, potranno essere trattate altre questioni rimaste in sospeso. Ad esempio, l’incostituzionalità dell’attuale preclusione alla liberazione condizionale (anche) per tutti gli altri reati ostativi, come pure l’incostituzionalità della preclusione (anche) alle misure extramurarie del lavoro all’esterno e della semilibertà. È nei poteri della Corte dichiararne l’incostituzionalità, a seguito dell’accoglimento della questione principale esaminata.

Anche questa tecnica ha un nome: incostituzionalità consequenziale. La Corte ne ha fatto uso nella nota sent. n. 253/2019, generalizzando l’accesso ai permessi premio a chiunque abbia subito una condanna (perpetua o temporanea) per uno qualunque dei reati ostativi inclusi nella blacklist dell’art. 4-bis, 1° comma, dell’ordinamento penitenziario. È una tecnica che però presuppone una formale sentenza d’accoglimento, non un’ordinanza interlocutoria come quella odierna. Ma, una volta scaduti inutilmente i tempi supplementari concessi al legislatore, per i giudici costituzionali ne sarà fattibile la «trattazione».

5. Avevo già segnalato su queste pagine (Il Riformista, 20 marzo 2021) perché la Corte avrebbe fatto bene a non cedere alla tentazione di rinviare la decisione richiesta ad altra udienza lontana nel tempo: Salvatore Pezzino, e tutti gli altri ergastolani ostativi in condizione di chiedere (e magari ottenere) la fine di una pena senza fine, sono in galera da decenni. L’anno supplementare concesso a un legislatore accidioso ne allungherà indebitamente la reclusione. È la contraddizione segnalata da molti: la Consulta tiene in vita, sia pure artificialmente, una disciplina incostituzionale. In termini di principio, il rilievo è di spessore. Inviterei, tuttavia, a non perdere di vista il momento dell’applicazione normativa, dove Pezzino e gli altri – da qui al maggio 2022 – non avrebbero mai riacquistato la libertà.

Sulla base della costante giurisprudenza di legittimità, infatti, la liberazione condizionale sarebbe stata comunque in concreto loro negata, in ragione dell’assenza di previe positive esperienze extramurali. Il percorso trattamentale, infatti, ha una sua gradualità che, come in natura, non ammette salti. Il permesso premio è la sua prima tappa, la liberazione condizionale è l’ultima. Non è da escludere che, di ciò, i giudici costituzionali abbiano realisticamente tenuto conto.

6. Resta, invece, il nodo della violazione dell’art. 3 CEDU: come già la Corte di Strasburgo nel 2019, così oggi la Corte costituzionale ne accerta l’incompatibilità con l’ergastolo ostativo. Ma, evitando di rimuoverlo con effetti generali immediati, non vi pone rimedio. Persiste, così, il problema della conformità del comportamento del nostro Stato rispetto alla doverosa esecuzione della sentenza Viola c. Italia n°2, ancora inevasa. Problema grave, perché l’art. 3 CEDU proibisce in termini assoluti e incondizionati pene inumane e degradanti, indipendentemente dalla natura dei reati così sanzionati. Secondo la Corte europea, è vero, la soluzione al problema impone una riforma dell’ergastolo ostativo «di preferenza per iniziativa legislativa». Trattandosi però di un dovere gravante su tutti i poteri statali (Corte costituzionale compresa), la quaestio in esame poteva essere l’occasione giusta per rimediare alla persistente condizione di illegalità. Così non è stato.

7. Ora la palla è nel campo di un legislatore fino ad oggi riluttante a intervenire e che tale si confermerà anche in futuro, come già accaduto nel “caso Cappato”. Accetto scommesse. Toccherà allora ai giudici costituzionali dichiarare formalmente ciò che già oggi avrebbero potuto dichiarare, se solo avessero scelto di anteporre a tutto la funzione contromaggioritaria cui è chiamato il Giudice delle leggi, specialmente quando in gioco è la libertà personale.