1. È stato depositato il testo dell’ordinanza n. 97/2021 della Corte costituzionale, in tema di ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, già sinteticamente anticipata per linee essenziali dal comunicato stampa di Palazzo della Consulta del 15 aprile scorso. Commentandolo, su questo giornale si è scritto che quella decisione rappresentava «un punto di non ritorno» per l’ergastolo ostativo (Il Riformista, 17 aprile 2021). L’ergastolo senza scampo, costituzionalmente, non aveva più scampo. È veramente così?

2. Da qui è bene partire, per non confondere forma e sostanza. È vero, infatti, che quella depositata è un’ordinanza, cioè una decisione interlocutoria che si limita a disporre il rinvio del giudizio in corso, fissando la data del 10 maggio 2022 per una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale. Ma è altresì vero che, nel merito, l’incostituzionalità della disciplina oggi in vigore è già stata acclarata. Su ciò, la lettura dell’ordinanza toglie ogni dubbio residuo. L’attuale disciplina dell’ergastolo ostativo preclude l’accesso alla liberazione condizionale per il condannato che, pur potendo, non collabora utilmente con la giustizia. Ciò in forza di un automatismo legislativo (mancata collaborazione, dunque perdurante pericolosità sociale, quindi impossibilità di concessione di qualsiasi misura extramurale) che «mette in tensione» i princìpi costituzionali e della Cedu elaborati dalle rispettive Corti.

Princìpi secondo i quali una pena perpetua è legittima a condizione che l’ergastolano possa riacquistare la libertà proprio attraverso il beneficio della liberazione condizionale, se e quando meritata. Diversamente, «la pena perpetua de iure si trasformerebbe, così, in una pena perpetua anche de facto»: dunque inumana e degradante (secondo la Corte di Strasburgo) e contraria al suo necessario finalismo rieducativo (secondo la Corte costituzionale).
È questo l’approdo sia dell’evoluzione legislativa in materia, sia della giurisprudenza delle due Corti, entrambe efficacemente riepilogate nell’ordinanza. Ecco perché «è necessario che la presunzione in esame diventi relativa», cioè superabile sulla base dell’acquisizione di altri specifici elementi diversi dalla sola collaborazione. Così com’è – si legge nell’ordinanza – l’ergastolo ostativo «pone un problema strutturale» che va risolto «alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata».

3. O collabori o rimarrai dietro le sbarre fino alla fine della tua pena: in breve, questo è lo scambio che la legge impone in caso di condanna per reati ostativi contenuti nella blacklist dell’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit. È una condizione opprimente per la libertà di autodeterminazione, che fa tutt’uno con la dignità di ogni persona, anche se criminale certificato. La Corte cerca e trova le parole per dirlo. Laddove svela come quello scambio possa assumere «una portata drammatica» per il condannato all’ergastolo, obbligato «a scegliere tra la possibilità di riacquistare la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine». Un’alternativa che può farsi «scelta tragica» tra una collaborazione necessaria alla «propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia ad essa, per preservarli da pericoli».

Alternativa drammatica. Scelta tragica. Per tali parole la Corte (scommettiamo?) sarà populisticamente messa in croce, inchiodata dalle travagliate accuse di smemoratezza verso chi i propri cari li ha persi – drammaticamente, tragicamente – proprio per mano mafiosa. Sono invece espressioni costituzionalmente giustificate, e non solo perché l’esecuzione penale riguarda singole persone, non organizzazioni criminali. Infatti, secondo il diritto penale liberale incapsulato nella Costituzione italiana, la collaborazione con la giustizia può essere premiata, non coercita, e la si può pretendere soltanto se «naturalisticamente e giuridicamente possibile» (sent. n. 89/1999), non sotto ricatto. Passa anche da qui la capacità di uno Stato di diritto di combattere la criminalità organizzata, che invece usa indiscriminatamente contro le proprie vittime proprio la coercizione psico-fisica e la minaccia della morte in assenza di collaborazione.

4. Dunque, l’ergastolo ostativo è «incompatibile con la Costituzione», come recitava correttamente il comunicato stampa del 15 aprile: oggi sappiamo perché. Se così è, che cosa ha precluso alla Corte di pronunciare una formale sentenza di annullamento di una disciplina penitenziaria così severamente censurata? Ad impedirlo è stata la radicalità della «posta in gioco», misurabile su piani diversi ma sovrapposti. Il piano ordinamentale, essendo in questione «le condizioni alle quali la pena perpetua può dirsi compatibile con la Costituzione».

Il piano esistenziale, essendo in discussione per il condannato «la sua stessa possibilità di sperare nella fine della pena». Il piano sanzionatorio, essendo sospettati di incostituzionalità «aspetti centrali e, per così dire, “apicali”» della normativa di contrasto al crimine organizzato, quanto alle fattispecie di reato (di contesto mafioso), all’entità della pena (l’ergastolo) e al beneficio avuto di mira (la liberazione condizionale). Il piano, infine, della coerenza normativa, considerato che un accoglimento immediato delle questioni proposte potrebbe comportare «effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame», analiticamente illustrati nell’ordinanza.

Ciò che era stato possibile quando in gioco era l’ostatività al permesso premio (sent. n. 253/2019) si rivela, per ora, impraticabile. In quel caso, la Corte non si era limitata ad accogliere la quaestio riguardante l’accesso al beneficio penitenziario che segna l’inizio del percorso di risocializzazione, ma ne aveva esteso gli effetti a chiunque avesse subìto una condanna (perpetua o temporanea) per qualsiasi reato ostativo. Rispetto a quel precedente, ora «la posta in gioco è ancora più radicale» e chiama in causa scelte di politica criminale che eccedono i poteri della Corte perché «non costituzionalmente vincolate nei contenuti». I giudici costituzionali decidono così di fermarsi: «esigenze di collaborazione istituzionale» impongono il rinvio della causa a data certa, «dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia».

5. Fa bene Giovanni Guzzetta (Il Riformista, 12 maggio 2021) a sottolineare l’occasione così offerta alle Camere di dimostrare, anche in quest’ambito, una centralità faticosamente ritrovata. E tuttavia, pare adulterata la narrazione dell’ord. n. 97 laddove accredita l’immagine di un legislatore che si sarebbe già attivato in direzione di «una disciplina di “assestamento”» del regime ostativo applicato all’ergastolo. La realtà è diversa. Come in un gioco delle parti, i lavori della richiamata Commissione parlamentare antimafia si sono deliberatamente fermati, senza produrre iniziative legislative, in attesa del pronunciamento della Corte. La sola proposta di legge citata (AC n. 1951) è stata presentata in Commissione Giustizia il 2 luglio 2019 e mai discussa. Quanto all’esecuzione della sentenza Viola c. Italia n°2, il problema strutturale rilevato dalla Corte di Strasburgo – checché ne dica il Governo presso il Consiglio d’Europa – non è stato ancora affrontato né tantomeno risolto con alcuna misura di carattere generale.

6. La liberazione condizionale è una misura intrinsecamente penale, e la materia penale è dalla Costituzione riservata alla legge parlamentare. Spetta, in primo luogo, al legislatore «ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo»: il ritorno alla politica, dunque, si giustifica e rappresenta – illuministicamente – la soluzione preferibile e più coerente dal punto di vista ordinamentale. Ma c’è un limite non valicabile oltre il quale il rispetto della discrezionalità legislativa cede alla ragione fondamentale della giurisdizione costituzionale, e quel limite è già segnato sul calendario: 10 maggio 2022. Allora, sarà compito della Corte «verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte». O non assunte.