Le due proposte di legge (l’una costituzionale, l’altra ordinaria) presentate da Fratelli d’Italia per scongiurare, a loro dire, lo “smantellamento” del carcere ostativo per i boss mafiosi dimostra una volta ancora, ed in modo tristemente inequivocabile, quanto ancora lunga sia la strada che separa una certa cultura politica che pur si candida alla guida del Paese dai principi della nostra Costituzione sulla pena e la sua funzione, nonostante ci separino quasi 75 anni dalla sua approvazione e più di 250 dal Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria.

Difatti, tra le tre possibili finalità della pena – intimidatoria, afflittiva ed emendativa – i costituenti (alcuni dei quali il carcere l’avevano vissuto di persona) decisero di privilegiare quest’ultima. Da qui, l’art. 27.3 Cost. secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Non è dunque vero che le finalità della pena sono equivalenti (c.d. concezione polifunzionale), come reiteratamente si afferma nella relazione della proposta di legge costituzionale a prima firma Giorgia Meloni, perché, come recentemente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 149/2018 (non a caso mai citata in tale relazione) la rieducazione del condannato è la finalità principale e ineludibile della pena e non può mai essere sacrificata «sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena».

Del resto, è proprio per smorzare e, in fin dei conti, contraddire la prevalente finalità rieducativa che Fratelli d’Italia propone d’aggiungere al citato art. 27.3 Cost. l’inciso per cui «la legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini», perché – Meloni dixit – «a me che tu hai avuto una buona condotta in carcere o che hai partecipato a programmi di rieducazione non frega niente se sei stato un mafioso che hai ammazzato». Una modifica che finirebbe per sfregiare il “volto costituzionale” della pena, che deve sempre essere proporzionale anziché eccessiva, individuale anziché fissa, flessibile in corso dell’esecuzione anziché immodificabile. Ciò nella convinzione, sottesa alla nostra Costituzione e sideralmente distante dalle parole della Presidente di Fratelli d’Italia, che «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento» che chiama in causa sia la sua responsabilità individuale «nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità», sia «la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino» (C. cost. 149/2018, 7).

Sono questi i principi che hanno portato dapprima la Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Viola del 13 giugno 2019 confermata dalla Grande Camera il successivo 8 ottobre) e la Corte costituzionale (sentenze nn. 253 e 263 del 2019 e 97 del 2021) a dichiarare illegittimo il divieto assoluto di accesso a benefici carcerari (permessi premio e liberazione condizionale, peraltro dopo almeno 26 anni di pena scontata) ai condannati per reati associativi di particolare allarme sociale (tra cui mafiosi e terroristi) perché non avevano collaborato con la giustizia. Difatti, come il “collaborare” non implica sempre “un vero pentimento” (come dimostrano i falsi pentiti), analogamente il “non collaborare” non significa sempre “assenza di pentimento”, specie quando ciò è dovuto ad altri fattori, come il timore di ritorsioni contro i propri familiari.

Il “fine pena mai” per mafiosi e terroristi dunque contrasta radicalmente con la finalità rieducativa della pena. Ed è solo frutto di una banalizzazione a fini propagandistici affermare che ad un boss mafioso basta aver tenuto una buona condotta in carcere e partecipato ad un programma di rieducazione per essere scarcerato. Spetta, infatti, sempre al giudice di sorveglianza, infatti, valutare attentamente caso per caso la sua effettiva pericolosità sociale, anche qui senza automatismi o presunzioni assolute, sulla base dell’effettiva interruzione dei suoi rapporti con la criminalità organizzata e della sua fattiva partecipazione al percorso rieducativo. Valutazione peraltro compiuta alla luce delle relazioni del carcere nonché dei pareri della Procura antimafia antiterrorismo e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Del resto i numeri sono lì a dimostrare quanto le maglie siano rimaste strette, anche dopo le sentenze della Corte: sono stati infatti solo otto i permessi accordati agli ergastolani e nessuno di loro era sottoposto al carcere duro del 41-bis.

Consapevole comunque della delicatezza della materia, la Corte costituzionale, nell’ultima sentenza, ha affidato al legislatore il compito, entro il prossimo 22 maggio, di ridefinire la materia, bilanciando i diritti dell’ergastolano con le esigenze di contrasto del fenomeno mafioso. In questa prospettiva le proposte di legge presentate da Fratelli d’Italia e tutte quelle che tendono a reintrodurre il c.d. ergastolo ostativo per mafiosi e terroristi che non collaborano con la giustizia si pongono pervicacemente contro l’articolo 27 della Costituzione sulla finalità rieducativa della pena (che non a caso, come detto, si vorrebbe modificare), di fatto ignorando (o facendo finta d’ignorare) che tale preclusione assoluta è stata già dichiarata incostituzionale dalla Corte.

Molto più utili in tal senso sono, piuttosto, le proposte di legge che cercano di rispondere positivamente alle esigenze di bilanciamento sollecitate dalla Corte costituzionale. In questo senso merita particolare menzione quella avanzata dalla Fondazione Giovanni Falcone (tanto per capire chi ne interpreta correttamente il pensiero e chi no). Del resto, come opportunamente ricordato su queste colonne da Tiziana Maiolo, proprio Giovanni Falcone aveva subordinato l’accesso ai benefici penitenziari all’accertamento da parte del giudice di sorveglianza dell’inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e non alla collaborazione con i pubblici ministeri, introdotta piuttosto con il successivo decreto Martelli dell’8 giugno 1992, dopo le stragi di quell’anno. La proposta della Fondazione subordina l’accesso alla libertà vigilata dei mafiosi e terroristi condannati all’ergastolo, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, non solo al loro “contributo per la realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”, ma anche alle loro iniziative in favore delle vittime ed alla loro effettiva partecipazione alle forme di giustizia riparativa (tema giustamente molto caro all’attuale ministra della Giustizia).

Un’ultima considerazione. Agli alfieri del populismo penale che ritengono la finalità rieducativa della pena discorso da “anime belle” che ignorano come il carcere debba essere una “discarica sociale” popolata da condannati che vi devono marcire sino all’ultimo giorno di pena, forse (ma solo forse) vale la pena ricordare che rieducare ogni condannato non è solo un obbligo morale ed un vincolo costituzionale ma costituisce il miglior investimento economico per assicurare la sicurezza sociale. È infatti statisticamente dimostrato che i condannati anche per gravi delitti che abbiano potuto acquisire in carcere una professionalità lavorativa o fruito di permessi, premi e misure alternative alla detenzione non solo non tendono a fuggire ma, una volta scarcerati, in massima parte si reinseriscono più facilmente nella società e tornano meno a delinquere. Il che significa minore tasso di recidività, più sicurezza sociale e, quindi, meno costi per lo Stato. Di contro, il 70% di quanti hanno espiato fino all’ultimo giorno la pena in galera commettono nuovi reati. E purtroppo l’albero fa rumore quando cade, non quando cresce.