Non è possibile chiudere gli occhi per non vedere, né tapparsi le orecchie per non sentire. Sessantacinque cittadini si sono tolti la vita nelle carceri italiane in questo anno 2022, e temiamo non sarà finita, da qui al 31 dicembre. Giorgia Meloni più di tutti è chiamata oggi a guardare, a sentire, ad ascoltare. A “sentire”, prima di tutto, un grido di sessantacinque voci che chiedono attenzione, che sollecitano un grande fascio di luce su quelle mura, su quella non-vita che è l’esistenza in cattività. E la forza del sottrarsi, dell’andare da un’altra parte, perché lì ti hanno tolto anche l’ultimo respiro, l’ultimo soffio di vita.

E’ all’ascolto di questi ultimi sussurri, che vorrei oggi sollecitare Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia e dell’intero centro-destra che ha vinto le elezioni politiche ed è pronta a ricevere l’incarico di formare un nuovo governo dal presidente Mattarella. Se non ha la possibilità di pensarci subito, visto il futuro immediato che la aspetta, lo potrà fare in un secondo momento, ma sappia che nel frattempo la casa brucia. E’ vero che, ancora da candidata, Giorgia ha dichiarato di essere, sulla giustizia, “garantista” nella fase del processo, cioè quando ancora vale la presunzione di non colpevolezza, ma “giustizialista” nella fase di esecuzione della pena. Niente più di uno slogan, se mi permetti. Perché tutto quel che capita “dopo” la celebrazione del processo dipende da quel che è successo “prima”. Innanzi tutto: esistono gli errori giudiziari, ma anche sentenze sbagliate come conseguenza di una serie di circostanze, non ultima la cieca fiducia che alcuni organi giudicanti hanno avuto, almeno negli ultimi trent’anni, nell’infallibilità del pubblico ministero. I “piccoli casi” sono decine, ogni giorno. Sono quelli di cui nessuno di noi parla, semplicemente perché dei piccoli nessuno si cura e le notizie non ci arrivano, se non quando sfociano in una fine tragica. Solo allora si scoprono disattenzioni e sciatterie, detenuti “dimenticati” in carcere dopo le scadenze dei termini, malati psichici non curati, tossicodipendenti lasciati nel posto sbagliato.

Ma vorrei ricordarti anche due “grandi casi”, quelli di cui tutti parlano, anche se, colpevolmente, solo dopo che la frittata è stata cucinata e mangiata. Primo caso, quello di Enzo Tortora. In pochi ricordano che una delle vittime più clamorose di malagiustizia in Italia fu condannato in primo grado. E ancora meno tutte le anomalie colpevoli della fase istruttoria. Il nome “Tortona” letto su un’agendina con un certo numero telefonico, numero che nessuno mai compilò per verificare se corrispondesse a quello del famoso presentatore. Poi: la testimonianza “fondamentale” di un bulletto che raccontò un episodio ridicolo che sarebbe avvenuto nella toilette di un’emittente privata milanese, con la moglie con l’elastico rotto delle mutandine, e Tortora che spacciava coca tranquillamente nel corridoio. E ancora: diciassette “pentiti” collocati nella stessa caserma a scambiarsi opinioni e a concordare versioni di fantasia utilizzate con disinvoltura dall’accusa. Ricordiamo anche che, se Enzo Tortora, che di tutto questo morirà, perché sono tante e diverse le forme di suicidio, non ha finito i suoi giorni in un carcere, lo dobbiamo alla curiosità di un presidente di corte d’appello. Il quale, al contrario di quanto fanno troppo spesso altri suoi colleghi, ha passato numerose notti a scartabellare carte e testimonianze. E ha scoperto il clamoroso abbaglio collettivo, chiamiamolo così. Non risulta che quel presidente abbia in seguito fatto carriera, ma i suoi colleghi che avevano “sbagliato” invece si, tutti promossi, anche al Csm.

E veniamo al secondo “grande caso”, cara Giorgia, di cui, sono sicura, hai già sentito parlare: la morte di Paolo Borsellino e il caso Scarantino, il finto “pentito” costruito a tavolino. Qui non ci sono errori giudiziari. Qui c’è stata volontà politica di trovare capri espiatori, non importa se colpevoli o innocenti, ma subito, da dare in pasto all’opinione pubblica. E che cosa dire di quei quindici che sono rimasti in carcere innocenti per quindici anni a causa di questa operazione politica di uomini dello Stato? Se tu ne avessi incontrato qualcuno, come è capitato a qualche parlamentare come me, mentre subivano vere torture negli istituti speciali di Asinara e Pianosa, forse guarderesti al carcere con occhi diversi. E forse non avresti presentato quella proposta di legge di riforma costituzionale per modificare l’articolo 27 e affiancare al principio della rieducazione del condannato l’esigenza della tutela della sicurezza. Si, perché quelle leggi incostituzionali sull’ergastolo ostativo che sa tanto di pena di morte sono nate proprio in quei giorni emergenziali del 1992, dopo l’assassinio di Paolo Borsellino. E non è mai buona cosa legiferare con una pistola puntata alla tempia. La pistola di dover dare qualcosa in pasto all’opinione pubblica.

Ma fino a qui abbiamo parlato solo di persone innocenti. Comodo, starai pensando, ma vogliamo parlare dei colpevoli? Certo, hai ragione, parliamo di Caino, perché su Abele vittima di ingiustizie è facile essere d’accordo. Non so se hai letto sul Riformista dei 23 di questo mese l’articolo di Lea Melandri. Non ha scritto parole in tuo favore, ma neanche contro. Ha soprattutto sviluppato un ragionamento generale, che io personalmente condivido, sulla rinuncia, da parte di molte donne, a quel percorso delle femministe che avevano tentato di attribuire valenza politica al “personale”, la sessualità e la contraddizione donna-uomo. Vi siete accontentate dell’emancipazione, dice Lea, cioè di farvi accettare dal mondo del potere patriarcale omologandovi al modello culturale maschile. Io non so se, come azzarda Melandri, le donne di centro-destra abbiano assimilato il “familismo” italico che relega la donna al suo ruolo di eterna madre di tutti e dedita alla cura di genitori figli e mariti.

Ma devo dire che è proprio a questa donna-madre, che personalmente non vedo solo in negativo, che voglio oggi appellarmi. E sono sicura che proprio questa parte di Giorgia saprà ascoltare. E anche “sentire”. Il discorso è questo. La riforma della giustizia è fondamentale per la civiltà di un Paese, o di una Nazione, come tu preferisci dire. La scelta di Carlo Nordio, che conosco personalmente da moltissimi anni, come ministro Guardasigilli, mi trova entusiasta. Il suo programma probabilmente lo condivido ancora più di te. Ma fare giustizia deve voler dire prima di tutto guardare in faccia le persone, credere in loro, soprattutto nella possibilità che, se sapremo trattarle con attenzione ai loro diritti, anche loro, o molte di loro, prima a poi cambieranno. Proprio come prevede l’articolo 27 della Costituzione.

Io personalmente non credo che la privazione della libertà sia lo strumento più adatto a cambiare in meglio le persone. Se in sessantacinque si sono tolti la vita nell’arco di nove mesi, il problema non è più individuale, ma è lo strumento-carcere che non funziona. E allora, cara prossima prima ministra, vogliamo partire almeno dal “piccolo”, e risolvere questa ingiustizia che qualcuno chiama sovraffollamento, ma che è solo mancanza d’aria? Nell’attesa che la separazione delle carriere e le altre riforme sulla giustizia risolvano a cascata anche qualche problema del carcere, vogliamo sottrarre a questa tortura almeno i soggetti più fragili come tossicodipendenti e malati psichici? E poi proviamo a fare insieme lo sforzo di convincerci, perché gli esempi sono tanti e molto concreti, che il cambiamento anche nelle persone che hanno tenuto i peggiori comportamenti, è possibile. Più spesso di quel che non credano coloro che vogliono chiudere la cella e buttare la chiave. Io non credo che una donna, quella che il “destino” del patriarcato ha collocato al maternage e alla cura degli altri possa essere tra loro. Credo invece che, se si ferma un attimo a osservarsi, possa trovare in sé una diversa sensibilità, quella di credere alla possibilità di un percorso di revisione e cambiamento. E comportarsi di conseguenza, magari ritirando quella proposta di (contro)riforma costituzionale. Vuoi pensarci?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.