Diversi giornali e programmi televisivi hanno criticato Berlusconi per aver proposto di impedire al PM di fare appello contro le sentenze di assoluzione pronunziate da un giudice penale di primo grado. Hanno anche indicato come questa proposta non possa comunque essere attuata perché la Corte costituzionale ha già dichiarato incostituzionale una legge che la proponeva. Ritengo che queste critiche siano frutto di un acuto provincialismo e di una errata concezione del ruolo delle corti Costituzionali in un paese liberal democratico.

Occorre innanzitutto ricordare che il divieto di appellare le sentenze di assoluzione da parte del pubblico ministero (PM) è un istituto creato 231 anni fa. Fa parte di un insieme di diritti costituzionali riconosciuti al cittadino statunitense nei confronti del governo. Si tratta del Bill of Rights approvato nel 1791 che oltre a riconoscere ai cittadini diritti come quelli riguardanti la libertà di parola, di stampa, di associazione, di religione e così via elenca anche i diritti del cittadino ad avere un giusto processo (due process of law) e tra questi anche il diritto del cittadino a non essere processato due volte per lo stesso reato (quinto emendamento). Questa previsione costituzionale muove dalla costatazione che il PM ha a sua disposizione molti più poteri e risorse del cittadino (si pensi solo ai poteri di indagine) e che per ciò stesso non vi sia né possa esservi di fatto una eguaglianza tra le parti del processo penale.

Che sia quindi necessario tutelare la parte più debole, cioè il cittadino giudicato innocente da ulteriori iniziative penali di natura persecutoria da parte del PM. Ciò che dovrebbe meravigliare non è, quindi, la proposta di adottare questo istituto anche in Italia ma piuttosto che questa tutela processuale a protezione del cittadino, vigente in numerosi paesi, venga proposta da noi con un ritardo plurisecolare. Un ritardo, occorre ricordarlo, interrotto “temporaneamente” solo nel 2006 da una legge (la n. 20 del 2006) che introduceva quell’istituto anche nel nostro processo penale. Ho detto “temporaneamente” perché quell’istituto venne subito cancellato dalla nostra Corte costituzionale che accolse con sorprendente celerità le eccezioni di costituzionalità sollevate dal pubblici ministeri di Roma e Milano (sentenza n. 26 del 2007). Ad avviso della nostra Corte costituzionale quell’istituto violerebbe il principio costituzionale dell’eguaglianza tra le parti nel processo in quanto consentirebbe al cittadino di fare ricorso in caso di condanna ma non al PM in caso di assoluzione.

Per la nostra Corte, a differenza del Costituente degli USA, è assolutamente irrilevante che di fatto non esista, né possa esistere nel processo penale eguaglianza tra accusa e difesa a causa della sproporzione tra i poteri e le risorse di cui dispone il PM rispetto a quelle di cui dispone il cittadino, una sproporzione, peraltro, ancor più marcata in Italia di quanto non sia che negli altri paesi democratici ove l’indipendenza del PM non è così assoluta, irresponsabile e incontrollata come da noi. Che dire della sentenza della Corte Costituzionale? Frutto di un formalismo giuridico che ignora anche le più evidenti realtà fattuali? Forse sì, ma a mio avviso vi è anche un fattore che condiziona i giudizi della Corte ben al di là del caso appena considerato e che deriva da uno dei molteplici aspetti della sua anomala composizione. Le nostre ricerche mostrano, infatti, che a partire dagli anni ‘60 la nostra Corte costituzionale ha con continuità accolto le eccezioni di costituzionalità sollevate dai magistrati riguardanti la tutela dei loro interessi corporativi e dei loro poteri.

Mostrano anche che oltre ai giudici della Corte eletti dai magistrati (5 su 15) lavorano nella Corte oltre trenta magistrati (a tempo pieno o parziale) che fungono da assistenti di studio di tutti i giudici Costituzionali ed il cui compito è quello di collaborare con essi per le decisioni che riguardano le questioni di costituzionalità sollevate proprio dai loro colleghi che operano negli uffici giudiziari. Non dovrebbe quindi sorprendere più di tanto la regolarità con cui la Corte tutela gli interessi economici ed i poteri della magistratura. Se anche si volesse considerare questo fenomeno come frutto di una strana, fortuita coincidenza mi sembra innegabile che la presenza dei magistrati ordinari come assistenti di studio costituisca un evidente caso di conflitto di interessi che andrebbe sanato, stabilendo che i magistrati ordinari non possano più svolgere le funzioni di assistente di studio dei giudici costituzionali. È una riforma che suggerisco da tempo ma che sinora non ha avuto ascolto.

Aggiungo una postilla che può essere di interesse per il lettore. Le nostre ricerche sulle Corti costituzionali dei paesi democratici mostrano che le anomalie della composizione della nostra Corte rispetto a quella degli altri paesi vanno ben al di là di quelle riguardanti gli assistenti di studio. Per sanarle e dare anche alla nostra Corte maggiore funzionalità, legittimazione democratica e trasparenza non basterebbe una legge ordinaria ma sarebbero anche necessarie profonde riforme di ordine costituzionale (“L’anomala struttura della Corte Costituzionale italiana, giudici e assistenti di studio: proposte di riforma”, www.archiviopenale.it, 2021, 3).