Strana campagna elettorale, questa dell’estate 2022. Mentre i campi larghi paiono in continua mutazione, tra occhi di tigre e quadri di van Gogh, ecco avanzarsi uno strano soldato. Mezzo solo, mezzo con Calenda, tenuto un po’ sotto il tappeto come la polvere o nell’armadio come l’amante clandestino nel mondo del Pd dove il suo nome fa lo stesso effetto delle unghie sulla lavagna, Matteo Renzi si butta sulla giustizia.

Non proprio un tema vincente, e neanche adatto a portar voti. Anzi. A meno che non si faccia un giuramento di eterno amore a quei pubblici ministeri che snobbano Luca Palamara dopo averlo sfruttato e adorato. E una genuflessione davanti all’antimafia militante. Chissà che cosa sarà saltato in mente a Matteo Renzi, quando ha deciso, sulle prime note di apertura di campagna elettorale – questa strana della bollente estate 2022 – di farsi intervistare sulla giustizia dal quotidiano il cui fondatore, Giuliano Ferrara, ha già dichiarato l’incoronazione di Enrico Letta con il proprio voto, e manca poco che lo abbia chiamato “amor nostro”, tradendo quello autentico. E che cosa gli sarà saltato in mente, soprattutto, di aprire la campagna sul garantismo. Sparando alto, soprattutto, come suo costume, ché il coraggio e l’incoscienza non gli mancano.

Italia viva, dice, cioè il partito da lui fondato dopo aver tirato calci a destra e a manca e aver distribuito con generosità un po’ di “stai sereno”, ispirerà la propria campagna elettorale al garantismo. “Siamo gli unici – dichiara al Foglio – in grado di chiedere a quei sette milioni che sono andati a votare i referendum sulla giustizia di votare per noi, perché nel nostro caso il garantismo non è a giorni alterni, come invece accade ad altri, a cominciare da Salvini e dal Pd”. Bravo, complimenti, evviva. Bocce ferme un attimo, però. Piccolo ripasso. Lo sai, Matteo, che il garantismo non porta voti, vero? E quei pochi, a chi stai cercando di sottrarli, a Salvini e al Pd, i due che hai citato? O magari stai pensando anche tu di buttarti in quel luogo affollato dove si stanno azzuffando sulle spoglie di Forza Italia? In questo caso faresti torto alla tua indiscutibile intelligenza e commetteresti l’errore, sempre diffuso tra coloro cui la storia pare non insegnare niente, di considerare Silvio Berlusconi uno come tanti. Dovresti sapere che non è così, e che non ci sono spoglie da spartire, neanche con la bandierina del garantismo.

Anche perché noi quattro gatti (deliziosa espressione indimenticabile di Rossana Rossanda) appassionati e forse ossessionati dallo Stato di diritto, mettiamo sempre i puntini sulle “i”. Infatti, sentirti dire “Da Cagliari a Descalzi, il Cane a sei zampe assediato dai pm” è quasi da orgasmo, perché i processi Eni hanno interessato la Procura della repubblica di Milano negli ultimi trent’anni. E le sorti di quel processo clamoroso per corruzione internazionale di Eni in Nigeria iniziato nel 2014 hanno fatto esplodere in modo radicale il bubbone di certi metodi investigativi che, da mani Pulite in avanti, sono andati nella direzione opposta rispetto allo Stato di diritto. Verissimo che “Quella contro Eni è stata un’aggressione giudiziaria e mediatica”. E ancor più vero il fatto che “Si è affermato il principio secondo cui, siccome di mezzo c’era il petrolio, allora c’era sotto qualcosa di sporco”. Questo si chiama sostanzialismo, e anche qualcosa di peggio. Il problema però non può riguardare soltanto Claudio Descalzi, nominato ceo di Eni proprio da Matteo Renzi e da lui, molto correttamente, sostenuto anche dopo l’incriminazione.

Il punto è per esempio anche ricordare quello che capitò al Palazzo di giustizia di Milano con le inchieste sui lavori preparatori di Expo, con gli scontri, dello stesso tenore a parti invertite di quel che è capitato dopo il processo Eni, tra Procura e Procura generale. E quel ringraziamento del Presidente del consiglio Renzi al Procuratore Bruti Liberati, e quell’incontro tra i due in una saletta riservata dell’aeroporto di Malpensa non hanno per niente contribuito a fare chiarezza su quelle indagini e su come sono poi finite. Lasciamo parlare, senza necessariamente sposarne la tesi, i sospetti dell’ex procuratore aggiunto Alfredo Robledo, cui l’inchiesta fu tolta, su quel ringraziamento e su quell’incontro. “Diciamo che era la prova di un intervento forte della politica sul procuratore della repubblica Bruti, per far si che non vi fossero intralci giudiziari, quindi delle inchieste, su Expo in particolare”. Forma o sostanza?

Il punto non è quindi quello di difendere gli innocenti, ma di salvaguardare un metodo. Soprattutto perché il diritto è forma, prima di tutto. E quando nel 2013 Silvio Berlusconi, dopo la condanna per reati fiscali, fu espulso da quel Senato in cui sicuramente tornerà tra due mesi, con grande velocità e impulso voluto dal segretario del Pd Matteo Renzi, mentre diversi giuristi chiedevano a gran voce una verifica sull’incostituzionalità della legge Severino applicata retroattivamente, anche quel giorno morì un pezzetto dello Stato di diritto. E se volessimo andare a scavare nelle carte di quel processo, nato a Milano dagli stessi procuratori che hanno rappresentato l’accusa contro la dirigenza Eni, forse ritroveremmo il filo di uno stesso metodo di indagine. Non vale l’obiezione che, di lì fino alla cassazione ci sono stati diversi giudici a decidere in modo conforme all’ipotesi dell’accusa.

Basti pensare a quanti giudici, togati e non, hanno bevuto le falsità calunniose del finto pentito Scarantino sulla strage di via D’Amelio per fare tristi riflessioni sulle facili subalternità nei confronti del Pm, il vero signore della giustizia e delle ingiustizie nel nostro processo. C’è poi questo grande neo, nel tuo rapporto con lo Stato di diritto, caro Matteo. Si chiama Nicola Gratteri. Quando, ricevuto l’incarico di premier nel 2014 sei andato al Quirinale con la lista dei ministri, nella casella del guardasigilli c’era quel nome. Perché era uno slegato dalle correnti, dici, mettendoti sulla difensiva. Poi sappiamo come è andata, e lo racconti anche nel tuo libro: Napolitano lo depennò perché c’era stata una sollevazione contraria di toghe, a partire da Pignatone, allora procuratore capo di Roma, quello che prese l’abbaglio su “Mafia capitale”, per finire con Piero Grasso, presidente del Senato, quello che da capo nazionale dell’antimafia aveva definito “una strage della legalità” un altro grande processo-bufala e non aveva mai chiesto scusa al Fondatore di Fastweb Silvio Scaglia per quell’anno di galera da innocente.

Una bella compagnia di giro, certo. Cui dobbiamo comunque gratitudine per quella protesta. Piccolo suggerimento finale: prima di iniziare il porta a porta sul garantismo, caro Matteo, prendi in esame i metodi e i risultati nelle indagini condotte, fin dalla notte di Platì e fino a oggi, dal procuratore Gratteri. Fa una telefonata al presidente dell’unione Camere penali Gian Domenico Caiazza e chiedi notizie sull’avvocato Pittelli. Fa la conta degli arrestati innocenti e delle vite distrutte, spesso di persone che non sanno neanche che cosa sia un consiglio di amministrazione. Fa la conta delle vittime e poi comincia tranquillamente la campagna sul garantismo. Buona fortuna.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.