Ha un bel dire Letta che per settembre servono “occhi di tigre”. Un partito assopito, per anni di trasformismo e di vocazione governista, è difficile che d’un tratto sprigioni una carica aggressiva. Quella che il segretario del Pd aveva pronosticato come “una bella giornata” si è rivelata, invece, come il mercoledì nero del campo largo. Comprensibile è dunque la volontà di vendetta di chi si sente tradito dopo tante lusinghe. Ma un residuo di razionalità deve guidare un leader anche quando adotta le strategie di punizione.

Una volontà di ricorrere alla esibizione della forza giustiziera sembra al momento dominare. Anche un tweet di Letta adotta più la cruda potenza del leone che la finezza della volpe: “In questo giorno di follia il Parlamento decide di mettersi contro l’Italia. Noi abbiamo messo tutto l’impegno possibile per evitarlo e sostenere il #governoDraghi. Gli italiani dimostreranno nelle #urne di essere più saggi dei loro rappresentanti”. In 140 caratteri di fuoco Letta, ma lo stesso Draghi lo aveva preceduto nella metafora della società civile contro il palazzo, scaglia l’Italia contro il Parlamento. La rappresentanza è dunque considerata in preda alla follia, cioè una istituzione delegittimata rispetto alla vera volontà popolare. Questo schematismo è però preferibile accantonarlo, si addice certo alla tigre che azzanna le forme, ma non appartiene alla grammatica liberaldemocratica che neanche nelle giunture più critiche accantona il fair play.

Persino uno scolaro di Schmitt, il giurista E. Forsthoff, annotava che sono scivolose le antinomie istituzioni-popolo e, quindi, che “le concezioni sulla legittimità non sono protette dal rischio di rimanere impigliate in un linguaggio da guerra civile”. Con l’immagine della tigre Letta non evoca scorciatoie belliche, ma intende semplicemente rispolverare la cosiddetta vocazione maggioritaria che indusse Veltroni nel 2008 a correre quasi da solo (compagno di viaggio fu Di Pietro, mentre la sinistra fu schiaffeggiata con la strategia del voto utile). Presentarsi in solitudine, in effetti, dovrebbe essere la regola in una competizione normale tra partiti organizzati. Ma far valere una aurea regola in completo isolamento non significa necessariamente meritarsi un attestato di buona e saggia condotta. Una modifica della legge elettorale, secondo uno scambio concordato tra Zingaretti e Grillo, e benedetto dal parigino Letta entusiasta anche lui della sciocca riforma ammazza poltrone dei deputati, non è stata mai approvata. Il nuovo segretario del Nazareno auspicava, anzi, un meccanismo maggioritario ancora più selettivo per costruire su semplice induzione meccanica un nuovo Ulivo con tutte le sigle dentro.

Presentarsi in solitudine, quando gli altri stringono intese con un clima di generosa ospitalità, può essere una semplice ripicca della tigre, ma potrebbe rivelarsi una pistola scarica nelle mani di chi ha sempre escluso la costruzione politica di una conquista maggioritaria per perseguire la scorciatoia della aggregazione di sigle eterogenee che ricevevano in appalto il monopolio di zone nevralgiche del corpo elettorale. Una scelta trasparente, nel senso di delineare una aperta competizione per la conquista della maggioranza, andava fatta nel 2019 in occasione dello sfaldamento del governo giallo-verde. Ma il voto era percepito allora come una maledizione che avrebbe fatto vincere Salvini. Si preferì, per questa carenza di “occhi di tigre” allora davvero necessari, varare un accordo trasformistico che prevedeva un cambio radicale di alleanze nella continuità della legislatura e sotto il comando dello stesso Presidente del Consiglio. Una ferita profonda nel corpo della politica intesa come coerenza ideale e programmatica che ha restituito al Pd margini di manovra e di potere, ma con risultati del tutto effimeri nell’addomesticamento o costituzionalizzazione dei populismi grazie alle attrazioni fatali del potere.

La sfida, allora rinviata in nome dell’emergenza che per il Pd era curabile solo con i magici ritrovati del trasformismo parlamentare, viene ora invocata dalla “tigre” per saziare lo spirito di rivincita. Ma il Pd è una tigre? Nel 2019 poteva condurre una battaglia ideale sorretta da una volontà di potenza contro il disastroso connubio giallo-verde. Dopo l’estenuante prassi trasformistica la tigre ha il corpo di un innocente gattino, anzi di un camaleonte che non spaventa nessuno. Se la volontà di mostrare occhi di tigre non è sorretta dalla energia selvaggia di un animale ferito e capace di azzannare chiunque, è preferibile un atteggiamento più dimesso. Il brusco passaggio dalla rilassatezza trasformistica all’esibizione di una forza naturalistica rischia di non essere credibile. Rispetto a Veltroni, il leader attuale del Pd parte peraltro da condizioni sfavorevoli. Anche se “non era mai stato comunista”, Veltroni non era comunque così scoperto a sinistra come appare ora Letta. Il Pd di oggi vanta Letta come segretario, Franceschini come capo corrente più influente, Guerini come leader della minoranza interna. Cioè tutti appartenenti al metapartito democristiano, con l’afonia dell’altra componente della ricetta del Lingotto.

L’atteggiamento iper-atlantico imposto da Letta sulla questione Ucraina, la delega della rappresentanza sociale al foglietto dei 9 punti di Conte, accentuano ancor più la sensazione di una impossibilità strutturale per il Nazareno di occupare lo spazio politico della sinistra in nome del voto utile. Più plausibile agli occhi di Letta sembrerebbe l’allestimento di una micro-coalizione all’insegna del “partito di Draghi”. In effetti, le differenze di cultura politica tra Renzi, Calenda e Letta non sembrano così enormi sul piano dei referenti identitari, restano solo delle evidenti distanze di ambizioni personali da appianare per respingere l’impressione, disdegnata dal leader di Azione, di sfornare una pura accozzaglia antisovranista. Il problema che assilla questo percorso centripeto è legato, piuttosto, al fatto che un’area Draghi aveva un preciso senso espansivo prima del 24 febbraio. La guerra, l’iper-atlantismo ribadito dal banchiere centrale con il cuore anche il giorno della caduta, e soprattutto i costi sociali dell’economia di guerra, restringono sensibilmente la capacità attrattiva del momento Draghi, la cui figura viene ristretta al puro contenimento del pericolo sovranista.

Solo un crollo della partecipazione al voto potrebbe rendere competitivo il nuovo campo. E Letta avrebbe comunque la necessità di allargare il quadro micro-coalizionale, tutto concentrato nell’area liberaldemocratica del moderatismo di centro, dando spazio anche alle formazioni della sinistra, che tuttavia potrebbero essere tentate, a questo punto, dalla velleità di definire attorno a Conte una qualche imitazione scolorita e a-ideologica di Podemos, con un populismo a sfondo sociale e territorialmente radicato nel meridione. Insomma, i problemi dell’offerta politica per un settembre che si annuncia nero sono molteplici e non si sciolgono i nodi tattici e i disegni strategici sgranando gli occhi di tigre. Letta non ha neppure il fisico e il linguaggio per esibire artigli e muscoli. Non avendo come dono neanche l’astuzia della volpe, deve procedere con la lentezza richiesta dall’arte del temporeggiare che, nella consapevolezza dei limiti delle proprie forze, suggerisce agli attori di evitare situazioni d’urto. Per scongiurare che il centenario della marcia su Roma si trasformi nella incoronazione della marcetta della madre e cristiana romana servono duttilità tattica e il recupero del linguaggio delle alleanze che, se è l’unico dialetto che si parla nella contesa, deve essere recepito con la spregiudicatezza necessaria anche da parte di chi lo ritiene una malattia della politica.

Alla destra servono intorno agli 80 seggi nei collegi maggioritari per vincere, e poco più di 130 seggi uninominali le consentirebbero di stravincere, incassando la maggioranza qualificata con la quale cambiare la Costituzione senza neppure la possibilità di un referendum confermativo. Se un’alleanza antisovranista è diventata ardua dopo le scene di follia parlamentare denunciate da Letta, immaginare però di sviluppare la contesa elettorale avendo come nemico principale il Conte da dimezzare è una semplice follia. La destra, che presenta sulla guerra e sul sovranismo fratture non meno accentuate di quelle che si riscontrano nel fronte progressista, supera ogni volta le proprie contraddizioni con le pratiche di alleanze insincere e pronte ad essere tradite alla prima occasione. È una patologia, certo, ma la risposta non può essere il disarmo unilaterale. È impensabile che alla consuetudine delle alleanze spurie e conflittuali della destra la risposta sia la vocazione maggioritaria come pratica che vale in uno spazio politico soltanto.

Dopo aver prescelto il trasformismo più spicciolo, rinunciando a identità, cultura politica, radicamento sociale, tutti ingredienti necessari per la corsa in autonomia, il Pd non può compiere in settanta giorni il lavoro mancato di un decennio. Rinunciare alla poco credibile simulazione degli occhi di tigre per concordare nei collegi maggioritari intese o, almeno, desistenze con il polo populista guidato dal devoto di Padre Pio è la sola prova di forza che il Pd a trazione democristiana può sopportare. Tra la subalternità assurda rivelata nel tempo del “punto di riferimento fortissimo” della sinistra e la fuga dalla “accozzaglia” che comprende in un ruolo di fatto subalterno il debole avvocato senza più popolo, c’è lo spazio della politica che di solito è una costruzione di forza ed è per questo sempre alternativa alle inclinazioni verso il suicidio.