La Giustizia è una dea bendata, come la Fortuna. In una mano tiene la spada, nell’altra la bilancia e sugli occhi ha, appunto, la benda. Qualcosa dev’essere andato storto se capita che, quella benda, la scosti di quanto basta per sbirciare con chi ha a che fare e che, nel farlo, i due piatti della bilancia perdano la simmetria, con quello della colpevolezza che grava in basso. È un pensiero che mi assale da un bel po’ e che è risorto prepotente di fronte alla condanna in primo grado dell’avvocato Armando Veneto, insigne giurista, maestro di diritto, prestigioso, e raro, politico la cui voce è stata tra le poche in grado di attraversare il Pollino, una bandiera e un punto di riferimento e, specialmente, un galantuomo. Il reato contestato era, nientemeno, concorso esterno in associazione mafiosa – ce lo spiegheranno presto o tardi cosa significhi, in cosa consista davvero – e corruzione in atti giudiziari aggravati dalle modalità mafiose.

Di recente il processo d’appello ha ribaltato la sentenza: è innocente per non aver commesso il fatto. Ed è la scoperta dell’acqua calda per quanti lo conoscono. A loro, a noi, non occorreva il processo d’appello per saperlo e per intravedere forzature sia nel rinvio a giudizio che nella condanna in prima istanza, in questo suffragati anche dalla tardiva e sospetta riesumazione di un caso già morto e sepolto, archiviato più di dieci anni fa per assoluta inconsistenza. Allora, davvero “le sentenze si rispettano”? Io non mi allineo alla vulgata: si rispettano le sentenze che meritano rispetto. E quella era carta straccia per tanti motivi, non ultimi il non aver tenuto conto della specchiata professionalità di oltre sessant’anni, del percorso umano, della sofferenza inflitta a un signore già anziano e dai trascorsi limpidi – tutti elementi che avrebbero dovuto avere un peso. E gridano orrore i quattro anni di crocifissione e di dignitosa attesa che hanno inciso non poco sull’uomo innocente, oltre ai danni collaterali, sulla famiglia, sulla salute, sulla reputazione. Del resto, che la sentenza non fosse degna di rispetto, lo conferma che sia stata ribaltata in sede d’appello.

Da questa vicenda è nata una passionale protesta di tutte le Camere Penali calabresi, espressa attraverso i rispettivi Presidenti, all’indomani dell’assoluzione. E ne è scaturita la corrucciata reazione dell’Associazione Nazionale Magistrati, l’anomalo sindacato delle toghe – anomalo nel senso che, connotandosi le correnti in un ambito in qualche misura politico, viene quantomeno a zoppicare l’idea della piena imparzialità, magari per induzione inconscia, ché tutti umani siamo.
Capisco il risentimento dell’ANM, è un sindacato e fa da scudo ai suoi iscritti. E appartiene ormai alla normalità che all’interno dei gruppi chiusi magari ci si scanni ma si è solleciti a compattarsi e a chiudersi a riccio se attaccati dall’esterno. Capisco, ma mi schiero con le Camere Penali, che evidentemente non ne possono più di una giustizia a dir poco febbricitante, di più nelle Procure antimafia dove alcuni elementi, pochi ma che fanno cassa di risonanza per la nazione, hanno la febbre alta e in Calabria mietono vittime a tutto spiano.

Gogna Calabria, uno su due è assolto in via definitiva

Affermazione gratuita? No, perché suffragata dai numeri. Da una personale e minuziosa ricerca, relativa alle importanti operazioni di polizia svoltesi contro la ’ndrangheta e alle risultanze processuali, emerge che, alla fine dei tre gradi di giudizio, l’innocenza maltrattata – messa in carcere o ai domiciliari o incriminata – è superiore al 50%. I numeri non mentono. E sono di tale portata da non poterli assorbire e assolvere come meri errori giudiziari, eventi fisiologici, imperfezioni che appartengono all’uomo, anche perché nelle altre parti d’Italia i dati sono molto più contenuti. Uno studio del Corriere della Sera ha determinato che dal 1992 al 2016 in Italia si sono verificati 24mila rimborsi per ingiusta detenzione, con la maggiore incidenza in Calabria. Ed è un dato che si mantiene pressocché costante, lo si evince dalle relazioni annuali del Ministero della Giustizia al Parlamento.

L’ingiusta detenzione e il rimborso-miraggio

I 1.000 indennizzi riparatori, un numero comunque allarmante, porterebbe a ritenere che 1.000 siano stati anche gli arresti ingiustificati. E non è così. Si attesta almeno sul doppio, più facile sul triplo, essendoci i respingimenti e le mancate richieste. Non hanno infatti diritto al risarcimento quanti nella fase istruttoria si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e quanti avevano solide premesse di colpevolezza, indizi a sfavore da aver indotto gli inquirenti alla valutazione scorretta, con quest’ultimo che è un elemento soggettivo, in teoria applicabile a chiunque. E c’è l’aggravante che da qualche anno il rimborso per ingiusta detenzione è diventato un miraggio, perché ne sconsigliano la richiesta gli stessi avvocati, per non scatenare ire e ricascarci. Ed ecco che i 1.000 diventano 2.000, 3.000. Ecco che i 28mila si trasformano in 60mila, 70mila. È tollerabile in uno Stato di diritto? Fino a quale incidenza è accettabile l’errore giudiziario? Non dovrebbe esserci affatto, ma lo capisco inevitabile, se però raggiunge simili vette urge correre ai ripari.

La procura dell’ex Gratteri sul podio dell’inefficienza

È la Procura di Catanzaro a essere o prima o sul podio dell’inefficienza che comporterebbe i risarcimenti. Lo è da anni. E nulla conta che il Procuratore Gratteri abbia asserito che, nel periodo di sua gestione, non ci sono state liquidazioni in tal senso. Ha affermato una grande verità falsa. Un ossimoro? No. Perché è vero che non ci sono state, ma soltanto perché non si era concluso l’iter giudiziario e non potevano essere avanzate le richieste, pioveranno a tempesta a breve, purché quanti ne hanno diritto mettano da parte la paura di esporsi. E in massima parte non si tratta di “colpevoli che l’hanno fatta franca”, come fiorì infelice sulla bocca di Piercamillo Davigo – se non fossi garantista, lo definirei un “colpevole che franca non l’ha fatta” e aggiungerei che ci ha messo la mano il buon Dio per castigarlo delle parole e del veleno nelle parole; ma, siccome garantista lo sono, non lo riterrò colpevole fino alla conclusione dei tre gradi di giudizio, mi auguro anzi che emerga la sua innocenza, l’aiuterebbe a spostare l’ottica e a capire cosa significa essere stato maltrattato dalla giustizia.

La ‘ndrangheta e il regime di polizia

La verità è che in Calabria la presenza della ’ndrangheta ha comportato quasi un regime di polizia, con i cittadini stretti in una morsa tra criminalità e criminalizzazione e con due paure con le quali convivere, una dei mafiosi che appestano l’aria, l’altra della giustizia che non va per il sottile, ramazza senza badare se si tratta di mondezza o meno e solo in un secondo tempo opera la cernita, con buona pace di chi, pur estraneo, si è ritrovato mescolato alle fetenzie. Certo, sono due paure diverse, e tuttavia sono entrambe paure. Invece, si dovrebbe confidare nella giustizia, non temerla. E gli inciampi succedono persino ai più ligi, a personaggi per i quali si potrebbe impiantare già in vita la pratica per la beatificazione. Di tutto questo ne risente per prima la giustizia, che ne perde in credibilità – le statistiche lo rilevano nell’intera nazione – e in questa terra la sua credibilità occorre più del pane. È una giustizia tarata dal pregiudizio. È una giustizia che talvolta persegue fini diversi. E opporre critiche, come democrazia concede, ha la valenza del reato di lesa maestà nei confronti di quanti – pochi e tuttavia incidenti sull’opinione pubblica – presumono d’essere alle dirette dipendenze del Padreterno, d’essere investiti della missione di anticipare in terra il giudizio divino. E c’è che mai sui magistrati rei di vistose leggerezze compaiono colpe da contestare, provvedimenti sanzionatori, nemmeno un buffetto sulla guancia, un vago rimprovero, un distinguo.

La risposta squallida del pm

“Tanto, pure a essere condannati in prima istanza, c’è il processo d’appello e l’eventuale terzo grado, che ripristinano la verità” obiettò un magistrato in carriera quando gli manifestai quelle che a mio parere sono le storture del sistema giudiziario. Risposta squallida, se non ha tenuto in alcun conto i tempi lunghissimi dei processi e il calvario di poveri cristi, innocenti costretti a subire l’onta del carcere, la gogna mediatica, la reputazione danneggiata per sempre e il tant’altro che ne consegue. “A buttare per terra un pugno di farina, tutta non si riesce più a raccoglierla” recita un vecchio detto. E, ahinoi, appartiene a quanto sto qui annotando.

Tornando al caso Veneto, la domanda ricorrente è come mai la Procura di Catanzaro abbia ripreso il fascicolo senza che fossero emersi nuovi elementi. “A pensar male talvolta si azzecca” diceva Andreotti. No, che vado a pensare, non è applicabile a questa vicenda. A invogliare l’incriminazione non sono stati la caratura e la visibilità del personaggio e il fatto che fosse un boccone prelibato. Dai, non arrivavano a tanto, vanno in chiesa, sono timorati di Dio. E ce l’avranno pure una coscienza, inutile che il diavoletto che ognuno di noi si porta dentro insista che per certuni essa è un optional. Comunque sia, di sicuro a perseguire un qualsiasi poveraccio non ne deriva gloria né quanto alla gloria si appiccica, se non merita manco un trafiletto sui giornali locali. Invece, troppo spesso le disavventure giudiziarie colpiscono chi siede a cassetta.

La carriera di chi mette alla gogna

Mettere alla berlina nomi eclatanti porta lustro, visibilità, medaglie, stellette, carriere sveltite, soddisfa la vanità, e non a caso da quaggiù decollano le fortune professionali di molti magistrati. E le promozioni fioccano persino quando le operazioni di polizia che le hanno indotte finiscono a tizzoni e cenere, si sgonfiano più delle ceramelle aspro-montane accartocciate alla chiusura della tarantella. Un’anomalia da addebitare al clamore in uscita, alle strombazzature televisivo, sui giornali. E al silenzio sulle assoluzioni che svelano essere stato un fiasco il risultato che ha sveltito la carriera. Di solito il primo grado di giudizio avalla le tesi della Procura e commina condanne, si è troppo porta a porta, giudicanti e pubblici ministeri, per guastarsela.

Il blitz a Platì: 215 indagati, 8 colpevoli definitivi

Il secondo grado e la Cassazione tendono a ripristinare la verità, onore al merito. Senza che il ribaltamento valga anche per chi ha preso l’abbaglio, quel che è dato è dato e non si restituisce indietro. E invece dovrebbe. In nessuna nazione civile avrebbe raggiunto certe vette l’artefice del più vistoso flop investigativo della storia, l’operazione Marine, a Platì, con l’intero paese accerchiato dalle forze dell’ordine e 215 tra arrestati e incriminati e, al riscontro processuale, 8 colpevoli, il 3,7%. Verrebbe da ridere, se non ci fosse da piangere, pensando che la prova principe del reato la si riconobbe in una delibera comunale dove, secondo l’accusa, si specificava che le opere fognarie venivano realizzate per favorire i latitanti. Bastava un minimo di buonsenso per capire che nessuno era così sprovveduto da renderlo palese in un atto pubblico, peraltro affisso all’albo pretorio – la parola incriminata, “latitanti”, lì contenuta, era la correzione automatica del termine “latistanti”. Ma tant’è…

Dalla giustizia malferma sulle gambe derivano danni irreparabili per le persone che ci incappano e per l’intera regione dipinta a tinte molto più fosche di quanto meriti, da avere il terrore di metterci piede. La volta che invitai in Aspromonte due coppie di francesi – c’era tra loro l’inviato in Italia di Le Monde – registrai le resistenze, si convinsero infine e scoprirono la Magna Grecia, l’accoglienza e la cordialità, e  che dietro i tronchi di faggio non c’erano banditi o latitanti pronti a usare violenza. Lungo il viaggio del ritorno, notarono alcune indicazioni stradali con i nomi dei paesi illeggibili. Fecero una foto e la misero sui social per denunciare la disfunzione. Beh, in tanti, francesi e italiani, scrissero che erano stati dei pazzi a venire dalle nostre parti. Eccolo, il pregiudizio, alimentato da quanti sono protesi a scalare le vette del cielo, a scapito di chiunque, senza crearsi scrupoli a piallare le vite. Ci mettono del loro anche certi giornalisti. Non c’è sentenza su operazioni di polizia riguardanti la ’ndrangheta che nei media locali non abbia un attacco più o meno così: “regge l’impianto accusatorio della Procura”, salvo scoprire, scorrendo il pezzo, che c’erano dei condannati ma erano molti di più gli assolti. Proprio dalla cattiva informazione è derivata l’equazione calabrese uguale ’ndranghetista e, peggio, garantista uguale ’ndranghetista, nel senso di posizioni ideologiche vicine alla ’ndrangheta, senza riflettere che la prima a essere garantista è la Costituzione, quella di cui ci riempiamo la bocca come la migliore del mondo e che nei fatti disprezziamo. Non a caso sono spuntate leggi basate su indizi vaghi, congetture, sentito dire, su roba fumosa insomma, che sanno di incostituzionale, così per le interdittive antimafia alle aziende, per lo scioglimento dei Comuni, per i sequestri di beni. E sono fumosità che distruggono uomini e cose, tolgono lavoro, martorizzano innocenti, inchiodano la Calabria come terra irredimibile. Mentre dilagano il sospetto e la condanna.

La disavventura dell’avvocato Veneto ha assonanza con quella del già governatore della Calabria Mario Oliverio, a cui furono spennate le ali politiche come si usava per le galline per impedirle al volo. Con lui tutto si concluse in Cassazione con l’annotazione di “chiaro intento persecutorio” nei suoi confronti. Questo, in altri settori, avrebbe distrutto la carriera, invece il Procuratore Gratteri – protagonista negativo sia nel caso Veneto che nel caso Oliverio, nonché con la palma d’oro in quanto a numero di innocenti arrestati – è stato premiato e oggi dirige la più importante Procura d’Italia, in verità per la gioia dei calabresi che ragionano, mentre Oliverio, pur vittima, è dovuto scendere giù dal treno della Regione.

E, allora, il merito? E il guaio è peggiore perché le presunte punte di diamante sono infettive, nel senso che diventano esempio malato per i colleghi alle prime armi e con smania di carriera. Così, capita che, più che perseguire un reato, si va in cerca di un personaggio in vista a cui appiccicarlo un reato, scavandogli intorno per trovare un inciampo, qualcosa che ci assomiglia. E qui sorge la questione dei concorsi in magistratura. Strutturati come sono, li vincono i più bravi a scuola e non nella vita, quanti in classe chiamavamo secchioni, tra invidia e disprezzo. E quella del magistrato è una professione troppo seria per lasciarla appannaggio di sprovveduti, freschi di laurea e di concorso e magari con l’unico merito di aver mandato a memoria, meglio dell’Ave Maria, i codici. Occorrono quantomeno test attitudinali dai quali emergano solidità caratteriale, personalità, equilibrio, maturità, senso della missione. Argomenti come questo mi sarebbe piaciuto che affrontasse l’ANM, più che la sterile difesa di una situazione indifendibile. E confido in una riforma vera e sostanziale della Giustizia, perché serve sì al cittadino, ma ne ha urgenza la Giustizia stessa per riacquistare la credibilità perduta, e troppo necessaria.

Mimmo Gangemi

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