Parliamo di lavoro e di Milano. Mettiamo le cose nel loro ordine. C’è una città, che è l’unica vera metropoli d’Italia. C’è l’economia, che in una metropoli cambia velocemente, seguendo – se non addirittura anticipando – le trasformazioni dettate dalla tecnologia, della digitalizzazione, dai mercati. Poi c’è un Paese, che su questi temi cruciali per lo sviluppo, è in affanno, gravato dal peso un sistema produttivo ingombrante, dai residui pesanti di una vecchia economia di stato, e da rendite corporative immarcescibili.

E dalla politica che, invece di indicare strade per il futuro, spaccia garanzie del passato. Il risultato è Milano che fa sempre più da sola e si mette in relazione, ormai direttamente, con altre metropoli europee in crescita e un Paese avvitato su sé stesso, ingarbugliato in un piagnisteo alimentato dai populismi e protezionismi. Il lavoro è lo specchio. Milano produce e chiede flessibilità, inventiva, lavoro agile in entrata, tanto quanto in uscita verso una crescita di competenze e prospettive. Il Paese vive la paura del cambiamento, con la politica che l’alimenta, puntando il dito contro chi – da tempo – spiega che le tutele sono il prodotto finale del lavoro, non l’origine.

Destra e sinistra, populisti e sovranisti, sindacalisti e benpensanti, non sapendo cosa proporre, sanno cosa attaccare e tirano fuori dall’armamentario della propaganda il bersaglio sempre buono del Jobs Act. Facciano pure. Vadano a sbattere, lasciando generazioni ostaggi dell’idea che i salari da fame si combattano per decreto e non con lo sviluppo. Abbandonino i ragazzi alla convinzione che l’unica alternativa ad un lavoro pessimo sia fare l’influencer. I cinquantenni alla resa di agguantare un sussidio che li porti alla pensione. Ma non pensino di farlo nel nome di Milano.

Sergio Scalpelli

Autore