È il 25 settembre il giorno in cui gli italiani decideranno il Parlamento della XIX legislatura. Quella delle prime volte: sarà la più “snella” con il taglio dei parlamentari da 945 a 600; quella nata in autunno, mai successo nella storia della Repubblica (unico precedente nel 1919); quella che dovrà raccogliere l’eredità, la legacy come dicono gli analisti, del governo Draghi; infine quella che molto probabilmente sarà guidata da un governo di destra-centro ben diverso dal centrodestra berlusconiano che ha dominato il ventennio 1994-2011.

Sta accadendo tutto molto in fretta. Il Presidente della Repubblica ha firmato il decreto di scioglimento delle Camere ieri alle 17 e 35. Draghi lo ha subito controfirmato nello studio del Presidente, una stretta di mano accompagnata da un sorriso (più largo quello del premier) e poi la comunicazione ufficiale al paese in diretta tv. Poche parole, come sempre, ma assai dirette. È stato “obbligatorio” sciogliere le camere perché “il voto e le modalità con cui è stato espresso il voto (mercoledì, ndr) hanno reso evidente il venire meno del sostegno del Parlamento al governo e l’assenza di prospettive di dare vita a nuova maggioranza”. Ma nessuno pensi di prendersela comoda. “Ho il dovere di sottolineare – ha precisato il Capo dello Stato – che il periodo non consente pause negli interventi indispensabili per contrastare la crisi economica e sociale e l’aumento dell’inflazione”. Mario Draghi, ringraziato “per l’impegno profuso in questi 18 mesi”, resta in carica per gli affari correnti ma avrà anche i poteri necessari per decidere gli “interventi per far fronte alle esigenze economiche e sociali, soprattutto per i concittadini delle fasce più deboli”, per “contenere gli effetti della guerra russa in Ucraina”, per “la sempre più necessaria collaborazione a livello europeo e internazionale”.

A tutto questo “si affianca l’attuazione nei tempi concordati del Pnrr e l’azione di contrasto alla pandemia”. Un menu di lavoro assai intenso che terrà aperte le due Camere, nonostante il Parlamento sia sciolto, sino al 5 agosto con un calendario dei lavori che prevede già la conversione, senza fiducia, del decreti Concorrenza (con i balneari e i tassisti) e della delega fiscale, quella con il catasto per intendersi. Si tratta delle due riforme legate al Pnrr che hanno tenuto bloccata l’azione di governo negli ultimi due mesi sottoponendo palazzo Chigi e il premier a continue estenuanti mediazioni. Finché non è saltato tutto. Draghi è tornato a palazzo Chigi intorno alle 18 e si è rimesso subito al lavoro con i ministri, rivolgendosi a loro (“sono orgoglioso del lavoro che abbiamo svolto nel solco del mandato presidenziale e al servizio di tutti i cittadini”) come se fossero qualcosa di altro e diverso rispetto ai partiti di provenienza che il giorno prima hanno umiliato il premier. Erano seduti al loro posto, come se nulla fosse, i ministri grillini D’Incà, Patuanelli e Dadone e i ministri della Lega. Solo Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna hanno avuto la coerenza di lasciare Forza Italia in dissenso alla sfiducia data.

In mattinata, nel fugace passaggio alla Camera, davanti al lungo applauso dell’aula Draghi aveva ironizzato “allora anche il cuore dei banchieri viene usato” scherzando sulla barzelletta del giovane che sceglie per il trapianto il cuore del banchiere ottantenne perché “mai usato”. Ieri pomeriggio ha preferito tagliare corto: “Porterò un ricordo molto bello di queste riunioni, ci sarà ancora tempo per i saluti, ora rimettiamoci al lavoro”. Chi ragiona sull’area Draghi a cui dare “un tetto e una casa” – Matteo Renzi lo ha detto in aula mercoledì, Brunetta ieri motivando le sue dimissioni da Forza Italia – saprà utilizzare anche queste parole per organizzare e non disperdere la legacy del governo Draghi. Che non va in ferie e anzi, si è raccomandato il premier “dobbiamo mantenere la stessa determinazione nell’attività che potremo svolgere nelle prossime settimane nei limiti del perimetro che è stato disegnato”. Tra le altre cose – dovrebbe sicuramente essere approvato un decreto Aiuti 2 – è necessario “portare avanti l’implementazione del Pnrr anche per favorire il lavoro del governo che ci succederà”. È un po’ più dura oggi accusare Draghi di aver voluto abbandonare la nave in difficoltà, una delle meschinità ascoltate in queste ore da parte di politici del centrodestra e dei 5 Stelle preoccupati di lasciare a qualcun altro il cerino del siluramento del governo Draghi.

Chi ha veramente spiazzato i partiti – dopo la durezza del discorso di Draghi al Senato – è stato il Presidente Mattarella. Elaborato lo choc nei famosi cinque giorni i verifica parlamentare (il peggior suk di sempre), il Capo dello Stato ha avuto le idee chiarissime: di partiti vogliono andare a votare? Qualcuno lancia avvertimenti, “guai giochetti col favore delle tenebre” (Meloni) temendo un altro rinvio? Benissimo, lo si faccia in grande fretta perché il Paese ha bisogno di avere il prima possibile un governo in carica e pronto ad affrontare le tante emergenze in corso, dalla guerra all’inflazione, dall’epidemia alla crisi energetica. Un governo pronto a rappresentare l’Italia nei summit internazionali ed europei cercando, per quello che è possibile, di non disperdere il patrimonio di affidabilità e credibilità acquisito negli ultimi 522 giorni dal governo Draghi. Il Quirinale ha a lungo interpellato il Viminale per verificare la fattibilità di convocare le urne addirittura il 18 settembre. Impossibile. La data è alla fine è quella del 25, ultima domenica di settembre e prima dell’autunno.

E così, se mercoledì sera, i capannelli di leghisti e grillini festeggiavano fuori dal Senato per aver “abbattuto il dragone” (sic) convinti di avere davanti la prospettiva di un governo tecnico fino a dicembre (i tempi di approvazione della legge di bilancio), le ferie salve, almeno cinque-sei mesi di campagna elettorale “protetta” dall’incarico e dall’indennità parlamentare e un premier tecnico su cui scaricare di volta in volta le scelte difficili e impopolari da prendere nei prossimi mesi, ieri mattina hanno tutti dovuto fare i conti con una realtà ben diversa: subito al voto, governo Draghi in carica per gli affari correnti ma, come ha ben sottolineato il Capo dello Stato, in grado di governare. Il messaggio, anche alla comunità internazionale, è evidente: l’Italia è un paese che non si ferma per una crisi politica. Lo dice la Costituzione che impedisce ogni tipo di vacatio. Mentre il governo cerca di governare – qualcosa ci dice che le prossime saranno settimane assai produttive – i partiti hanno iniziato la campagna elettorale (mai interrotta, è questo è stato certamente il problema). La mattinata, vista dal Transatlantico di Montecitorio, è stata dedicata a superare lo choc del voto subito, delle ferie saltate, del pochissimo tempo a disposizione. Poi tutti dicono di essere “pronti”. Ma a gennaio sarebbe stato meglio. Perché le coalizioni sono nel caos. Lo sport preferito, ieri e lo sarà ancora per molto, è quello di lasciare in mano agli altri il cerino del siluramento del governo Draghi. Enrico Letta ha gioco facile: “L’Italia è stata tradita dai partiti che hanno deciso di non votare la fiducia a Draghi” ha detto ieri in un’intervista alla Bbc. Centrodestra e 5 Stelle.

Con cui il “campo largo” sembra definitivamente morto e sepolto. Da Lega e Forza Italia – i più tramortiti ieri – si cerca di scaricare su Pd e 5 Stelle. Fin ad articolare teorie sulla “manina di Letta” dietro le gradi manovre che mercoledì, d’accordo con i 5 Stelle, hanno segnato il d-day al Senato. “Stava bene anche a Letta andare al voto ma così facendo è riuscito a scaricare tutto su di noi”. Sarà il tormentone della campagna elettorale. Salvini ha già detto che la Lega al governo farà “la flat tax, condono fiscale e taglio delle tasse”. Il problema però per tutti sono le liste. Dovranno essere depositate “entro il 28 agosto”. Tra poco più di un mese. Conte deve risolvere il problema del limite del secondo mandato. Grillo ieri ha detto che deve essere confermato. L’ex premier ha subito un nuovo grosso problema. Come la spiega a Taverna e ad altri fedelissimi che hanno già fatto due mandati? E il Pd, con chi si allea?

Intanto ieri il gruppo parlamentare Liberi e Uguali ha annesso Articolo Uno e Sinistra Italiana che dovrebbero così trovare posto nelle liste Pd senza presentare liste proprie. Quello che succede al centro tra Renzi, Calenda, + Europa e Italia al centro di Giovanni Toti e i tre ministri di Forza Italia che hanno lasciato in blocco Berlusconi, è ancora tutto da scoprire. Sono tutte qui le grandi manovre. Qui, al centro, si stanno facendo le vere strategie. La legge elettorale è quella che è. Il Quirinale ha fatto di tutto per gestire un finale di legislatura “ordinato” pur nelle condizioni date. Ma cosa succederà se le urne non daranno una maggioranza netta?

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.