Il compito era difficile e lo si sapeva in anticipo. Per molti versi era una delle principali preoccupazioni del Quirinale alla vigilia dello showdown parlamentare di ieri: si trattava di trovare un punto d’equilibrio delicato tra fermezza e apertura, tra disponibilità ad ascoltare le esigenze dei partiti e indisponibilità a esserne ostaggio sino alla paralisi. Sarebbe stata una missione ardua per chiunque e tanto più per un leader che non è un politico di professione, non è avvezzo alla mediazione a volte estenuante che è il prezzo della democrazia parlamentare. Sta di fatto che quell’obiettivo Mario Draghi non lo ha centrato.

Il suo discorso, molto atteso, dai contenuti ignoti sino all’ultimo secondo, ha reso tutto molto più difficile. Draghi ha affermato che se non escludeva la possibilità di proseguire nell’esperienza di governo era perché “lo chiedeva il Paese”, in una sorta di rapporto diretto tra il premier e il Paese che aggira e ignora la mediazione del Parlamento. Una posizione che, a ben guardare, non è dissimile nella logica di fondo da quella del vituperato “populismo”. In questo caso, è vero, il sostanziale disprezzo per il Parlamento e per i suoi riti non è mosso in nome dell’ “uno vale uno” di grillina memoria ma, al contrario, in nome della superiore competenza del tecnocrate che tuttavia si rivolge direttamente al popolo, capace di apprezzare i suoi risultati, a differenza di una politica avviluppata nelle sue trame. Ma la differenza, pur reale, maschera le somiglianze. La tecnocrazia e il populismo rappresentano le due braccia della stessa tenaglia.

Al Parlamento, nella sostanza e a tratti anche nella forma, il premier chiede una cosa sola: di approvare le decisioni del governo. Del resto è una visione che aveva già illustrato senza perifrasi alcuni mesi fa: «Il governo ha la responsabilità di decidere. Ai partiti spetta il compito di garantire l’appoggio parlamentare alle sue decisioni». Non è precisamente quel che avevano in mente i costituenti quando scelsero di costruire una democrazia parlamentare. Si può discutere su quanto sia stata reale e quanto mediatica la “mobilitazione” del Paese, l’invocazione rivolta a Draghi perché tornasse sulla sua decisione. Ma il punto in realtà non è questo: è sull’opportunità di brandire il sostegno popolare invece di quello parlamentare e quasi in contrapposizione a quello parlamentare.

Draghi doveva essere fermo, su questo non c’è dubbio. In caso contrario l’eventuale retromarcia, la decisione sofferta di rimangiarsi la stentorea affermazione secondo cui non era possibile alcun governo senza l’M5s sarebbe apparsa come un cedimento di portata tale da travolgere la credibilità del premier. Non c’era però alcun bisogno di vibrare mazzate come quelle che ha scelto di sferrare il premier, chiamando in causa la differenza tra una visione della democrazia europea e una “putiniana”, rinfacciando alle forze prese di mire di attaccare chi invece di garantire “un sostegno convinto all’azione dell’esecutivo” offre quel sostegno “a proteste non autorizzate, e talvolta violente, contro la maggioranza e il governo”.

Quello che è arrivato al pettine ieri è un nodo la cui esistenza era nota da lungo tempo: non si è trattato affatto di una vampata improvvisa e imprevedibile. Draghi ha sempre interpretato il suo ruolo come quello di un commissario straordinario molto più che non come quello di un premier sostenuto da una pur anomala e divisa maggioranza parlamentare. I partiti vivevano già con massimo fastidio il commissariamento nella prima fase del governo. Lo avevano manifestato nel modo più vistoso e clamoroso con lo sgambetto che aveva precluso al premier la via del Colle. Quel segnale poteva essere colto, come a lungo ha consigliato Mattarella di fare a Draghi oppure, al contrario, poteva moltiplicare il fastidio del premier per le alchimie e le strade tortuose della politica. Nella prima ipotesi, quella suggerita dal Quirinale, il premier avrebbe dovuto fissare alcuni paletti insuperabili ma per il resto trattare con le forze politiche. Nella seconda ridurre invece ulteriormente i margini di trattativa.

Draghi ha imboccato la seconda strada e l’ha confermata ieri. Nel suo discorso non ha delegato alcuno spazio alla mediazione con i partiti. Forse lo ha fatto perché il mestiere di politico non si impara da un giorno all’altro e in questo caso Mario Draghi si è reso involontariamente la vita più difficile da solo. O forse, come molti sospettano ma senza che ce ne sia alcuna prova, ha invece reso freddamente la pariglia a chi gli aveva imposto di revocare in dubbio la scelta delle dimissioni.