Ed è crisi. Il Quirinale ha rinviato il governo alle Camere e Draghi, parlando al Senato, si è appellato al paese. La discutibile parlamentarizzazione della crisi non ha restituito la auspicata stabilità al quadro politico, che anzi è andato in frantumi dinanzi alla contraddizione di una maggioranza da tempo non più esistente.
Stando al reciproco veto del centrodestra, che dice di no ad ogni nuovo governo comprendente il M5s sia pure rinsavito, e del Pd, che dichiara la propria indisponibilità ad accedere ad ogni esecutivo sprovvisto dell’apporto dei grillini sia pure rincitrulliti, il passaggio parlamentare non avrebbe potuto in alcun modo invertire il tragitto che conduce verso lo scioglimento delle Camere.

In assenza del dispositivo costituzionale della sfiducia costruttiva, il passaggio obbligato di Draghi alle Camere non si è configurato in alcun modo come un percorso chiarificatore. Il governo, infatti, non è entrato in crisi per una mancanza di numeri (manteneva, al contrario, un’ampia maggioranza anche al Senato), ma per una questione tutta politica. La mossa del Capo dello Stato, che sembrava dettata dalla volontà di prendere tempo, come occasione per spingere ad una ricomposizione sotto l’urto dei richiami al senso di responsabilità dinanzi a scenari apocalittici, non ha prodotto gli effetti auspicati. Si sono anzi moltiplicati i giochini tattici, con tentativi di scaricare su qualcuno la colpa del voto anticipato. Due sono gli effetti che la parlamentarizzazione ha sortito. Il primo è una mobilitazione di “sindaci, camionisti e imprenditori” nel segno della società civile che si scaglia contro il Parlamento irresponsabile perché, facendo cadere Draghi, conduce il paese verso il baratro della elezione delle nuove Camere. Compiti di chiara pertinenza statale, e quindi della pubblica amministrazione che sorveglia il destino dei piani di finanziamento, vengono indebitamente associati alla sopravvivenza del governo.

A queste mobilitazioni ha fatto riferimento Draghi come incentivo alla sua volontà di continuare (“sono qui oggi in quest’Aula solo perché gli italiani lo hanno chiesto”). La retorica del camionista arrabbiato, che incarna il simbolo di una società omogenea tutta ostile al rito elettorale che farebbe perdere risorse e buoni benzina, urta però con l’immagine opposta del tassista che, non meno incavolato, invece blocca via del Corso per protestare contro le misure governative sulla concorrenza che lo gettano sul lastrico. Per dire che non esiste un popolo unico, una società civile omogenea, ma si presentano sempre dei molteplici profili di popolo e dei differenti spezzoni di società. Per questo nelle democrazie, di norma, si vota per accertare la quantità di sostegno offerto dai cittadini a ciascun segmento del popolo. L’altro effetto dei cinque giorni presidenziali è stato quello di rendere ancora più polverizzato il sistema politico.

Il non-partito grillino è precipitato in una grottesca assemblea permanente, con prove di un’ennesima scissione dopo che è apparsa la vacuità del pretesto per ordinare la fuoriuscita dal governo (il termovalorizzatore, dopo i tentativi di rompere motivati dalla telefonata di Draghi a Grillo). La parlamentarizzazione della crisi, in un Parlamento così profondamente malato, non è una soluzione nel segno della stabilità, anzi accentua la sofferenza delle istituzioni ingovernabili. Già il sostegno offerto alla fuga di Di Maio ha contribuito non certo alla stabilità di governo, ma alla competizione feroce tra “Giggino lo statista” e l’avvocato del popolo e quindi all’accelerazione della crisi politica. L’astuto avvocato del popolo, insieme allo scaltro suo consigliere Travaglio, pensava di essere così furbo da uscire dal governo, in nome del no al termovalorizzatore romano (una questione davvero socialmente divisiva), senza creare scossoni alla maggioranza e anzi, proprio perché i numeri per Draghi continuavano ad esserci in Aula, conquistando la libertà di affrancarsi dal peso delle responsabilità per starsene di nuovo leggiadro all’opposizione di sistema. La scelta dell’opposizione, per apparire credibile, doveva essere accompagnata dalla contestuale richiesta di un voto anticipato e non certo dalla trovata di uno sganciamento d’occasione per ricaricare l’ormai flebile voce della protesta.

Preso dall’angoscia di chi teme di aver osato troppo, rischiando di andare al voto ed essere additato all’opinione pubblica come un non-leader irresponsabile che brucia i fondi europei, e in preda alla paura dell’isolamento, per un gesto di arroccamento identitario che fa perdere lo spiraglio delle alleanze, Conte vacilla e con gesti poco razionali approfondisce il logoramento di una leadership che mostra improvvisazione tattica e cecità strategica. Non basterà solo la decisione di Salvini di disertare il voto sulla mozione di Casini per cancellare le origini della caduta del governo e ricostruire una capacità coalizionale che per il M5s è stata seriamente compromessa.
Dopo aver “abbaiato” verso i Cinque Stelle (la questione dell’inceneritore capitolino poteva essere trattata in altro modo), Draghi non poteva che assumere la responsabilità politica di dichiarare la crisi. Anticipare di qualche mese il voto non evoca una tragica esperienza vagamente weimariana. Più temibile sarebbe proseguire con una maggioranza evanescente, che passa il tempo residuo della legislatura alle prese con la ricerca da parte di 5 Stelle e Lega (ossessionata dal sorpasso di Fratelli d’Italia) del motivo simbolico più efficace per sancire il momento della rottura.

Una legislatura che ha avuto già due formule politiche opposte (governo giallo-verde e giallo-rosa), ha poi espresso una terza stagione al di là di ogni formula politica con il governo Draghi, ha conteggiato innumerevoli scissioni, abbandoni, proliferazioni di partiti solo parlamentari e personali, ha infranto ogni relazione con la volontà popolare e non può essere difesa come antidoto all’emergenza. Quando proprio Draghi a Palazzo Madama si presenta come legato ad un sentimento popolare, che ha percepito vibrare negli appelli di questi giorni in suo favore, scomoda un popolo reale che non può più rimanere dormiente nella determinazione degli eventi politici. Dopo più di dieci anni di governi senza un chiaro vincolo politico-programmatico rispondente ai risultati elettorali, non è possibile gridare al sommo pericolo di un popolo sovrano che recupera il diritto di scegliere i propri rappresentanti. Vince la destra illiberale? È una eventualità sicuramente non piacevole, ma non può essere una ragione valida per arrestare la procedura della democrazia, tanto più che non si registrano violazioni rispetto alle regole del gioco di una competizione libera e pacifica.

Giorgia Meloni ha già il vento favorevole che da mesi la spinge, non dovrebbe contare anche sugli spifferi di avversari che riducono tutta la loro strategia ad un solo argomento: bisogna impedire che il governo cada nelle mani di questa destra. Una tale litania emergenziale sul pericolo incombente non ha più alcuna capacità mobilitante e, anzi, rafforza la “purezza” della donna, madre, cristiana, italiana che è all’opposizione e, contro il “caudillo” Draghi accusato di sognare i pieni poteri, lancia la sola risposta dinanzi all’usura irreversibile di una esperienza di governo: la parola al popolo. Il Pd, dal canto suo, continua ad invocare un Draghi precitato però, lui stesso, in una crisi di consenso personale. Non è più percepito come il regista di una modernizzazione dei fondamenti dell’economia capitalistica in stagnazione trentennale, ma è considerato da significative fasce della sinistra come un leader atlantico che lascia appannare il ruolo autonomo dell’Europa e favorisce la caduta in una economia di guerra. Per via di questa usura del “momento Draghi”, il Pd non può continuare nell’immobilismo politico che comunque regalava margini di consenso alle amministrative.

Nella regia di uno schieramento plurale per contrastare la destra (che potrebbe agevolmente conquistare la maggioranza qualificata), Letta è in affanno (certo ha in mano la sua formidabile carta del “mini kit di fotovoltaico per gli appartamenti dei ceti sociali fragili”). Mettere insieme le componenti liberaldemocratiche e di sinistra con gli scissionisti di Di Maio e l’anima del grillismo sopravvissuto non è impresa agevole. Come in altre occasioni, sembra pronto a riattivarsi ancora una volta il pendolo per cui al super tecnico (Ciampi, Monti, Draghi), invocato come il grande salvatore con facoltà divinatorie dinanzi ad una emergenza che mostra che il re della politica è nudo, subentra il ciarlatano, che seduce il pubblico con le arti manipolatorie delle narrazioni ingannevoli. Il trasformismo, che decompone i partiti antisistema e li inghiotte nei giochetti parlamentari, e le stesse ricette del Presidente che si sovraespone per garantire la stabilità sono una toppa, non la soluzione alla crisi di rappresentanza sociale della politica.