Il precipitare delle elezioni ha chiuso Enrico Letta in una cabina di regìa dalle dinamiche infernali. Le pressioni delle correnti sono fortissime e si riverberano su indicazioni di tattica e pretattica convulse e non di rado contraddittorie. Far vincere il partito non basta. Deve vincere una coalizione. La legge elettorale, il Rosatellum, stabilisce che 3/8 dei seggi di Camera e Senato siano assegnati in collegi uninominali e i restanti con metodo proporzionale tra le liste dei partiti. Quindi 147 dei 400 seggi della Camera e 74 sui 200 di Palazzo Madama vengono assegnati negli uninominali, dove basta un voto in più per vincerli. Chiaramente più ampia è la coalizione e maggiore è la possibilità di vincere questi collegi e così avere una maggioranza più solida nei due rami del Parlamento.

Il segretario del Pd va in Tv per dire di no a Conte: “Il campo largo è finito”. Anche la Sicilia, dove si voterà nell’election day del 25 settembre, vede il tandem rimesso in discussione. Poi però si risentono formule più fumose: “Per le alleanze va tenuto conto della legge elettorale”. La verità è che al Pd si rivolge l’intero mercato elettorale del centrosinistra e del centro draghiano, da Fratoianni a Toti. E Letta si trova a fare il vigile urbano in mezzo a un traffico impazzito. Matteo Renzi rinverdisce la vecchia consonanza: “Io ed Enrico”, dice a pié sospinto. Ma dal Nazareno le porte rimangono chiuse verso Italia Viva, così come non accennano ad aprirsi per Azione di Calenda e Più Europa di Della Vedova e Magi. Qual è il disegno del Pd? Ce lo rivela uno dei padri nobili: «Tenersi al centro di una bilancia. Mettere il Pd al centro di un asse che vede due raggruppamenti satelliti. A sinistra Pierluigi Bersani e Roberto Speranza, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, più il Psi. E a d e s t r a un’altra federazione di soggetti che vanno da Bruno Tabacci ai civici di Beppe Sala e a Insieme per il Futuro di Luigi Di Maio».

«Un progetto – continua la nostra autorevole fonte – capace di riportare in Parlamento tutte le anime capaci della massima rappresentanza del territorio e delle diverse culture politiche, e in prospettiva di conferirle magari dentro allo stesso Pd». Prendere il centro e metterlo a sinistra, insomma. E non viceversa. Gerardo Bianco – tra i più vicini, da sempre, a Sergio Mattarella – chiarisce: «La mia impressione è che sia sbagliata l’impostazione concettuale. Il ‘centro’ non è un luogo geometrico né un luogo dove si collocano le forze politiche. Il ‘centro’ è la risultante conclusiva di una politica, è dove convergono le forze che trovano un accordo su una linea, un indirizzo non solo di politica economica ma anche di pensiero, soprattutto di grandi indirizzi di civiltà. È auspicabile che, in vista delle prossime elezioni osserva Bianco -, ci sia uno schieramento, una coalizione che possa rappresentare ciò che ho appena detto, ma non aiutano queste iniziative personali, fra l’altro di persone che in qualche modo sono anche state causa della crisi. I vari Renzi, Calenda, Bonino, insomma, possono giocare un ruolo, ma in un certo senso sono anche loro elementi della crisi, soprattutto perché si combattono da prime donne, non hanno capito che non bisogna partire dall’interesse personale, né essere altezzosi».

Il nobile lignaggio catto-dem sembra sposare la linea che Enrico Letta sembra aver ispirato a Repubblica. L’idea che al Nazareno sembra prevalere è che l’area riformista comporta più grane che consensi. E il Pd medita di costringere i centristi a superare la prova di forza del tre per cento necessario a guadagnarsi l’accesso alle Camere. Renzi raccomanda prudenza, finché si tratta, ma l’irritazione dei suoi sfugge di mano. «Letta mette veti a forze che hanno voluto Draghi prima e più del Pd, come Italia Viva. Errare è umano, perseverare no. E il Pd persevera. Auguri», dice a voce alta l’europarlamentare di Iv, Sandro Gozi. «Letta ci ha tolto l’imbarazzo di una scelta che per quanto mi riguarda era chiarissima da tempo. Il Pd pensa ancora ai campi larghi e rimane zavorrato da incoerenze politiche interne e con i suoi alleati», aggiunge Gozi. E anche Ettore Rosato, coordinatore nazionale dei renziani, sbotta: «Noi abbiamo voluto Draghi e lo abbiamo sostenuto fino alla fine. Il Pd invece inseguiva Conte. E oggi Letta dice: con Di Maio sì, con Renzi no. Auguri! Noi stiamo con l’Area Draghi».

Claudio Signorile, altro nume tutelare del centrosinistra, raccomanda prudenza: «Non ci si può intestare Draghi in absentia. Si deve fare una operazione che guardi al recupero della prossimità con i cittadini, mettendo insieme le forze civiche e riformiste che sanno cambiare la politica senza arrogarsi il titolo esclusivo di interpreti del draghismo». La prossimità e il civismo sembrano i due denominatori di una iniziativa che può riportare l’attenzione sulle idee e sui volti nuovi. A metà della prossima settimana a Roma inizierà a prendere forma – veniamo a sapere – questa parte della costruenda coalizione di centrosinistra. Una Federazione di esponenti della società civile e del mondo civico, di eletti locali e di classe dirigente emergente che proverà – anche nel segno delle riforme di Draghi e del Pnrr – ad aggiungere un carattere nuovo alla sfida elettorale. Evocata dai renziani e dalle formazioni centriste, l’Area Draghi per estensione potrebbe intendersi proprio l’intero arco che va dai bersaniani agli ex azzurri Brunetta e Gelmini, Toti e Brugnaro. Se il Campo largo non esiste più, l’Area Draghi non esiste ancora. E nella terra di nessuno trova terreno fertile la guerra per bande: il Pd che si ostina a tenere alla larga i riformisti di centro rischia di fare autolesionismo. «O il centrosinistra si unisce con il centro e si crea un’unica coalizione oppure ci sarà una sorta di suicidio assistito per il centrosinistra e il centro, perché il centrodestra è avanti», avverte – in un richiamo che risveglia la politique politicienne dai torpori del suo vociare intestino – il sondaggista Antonio Noto.

«Ad oggi – ha sottolineato – l’unico schieramento certo è quello del centrodestra, poi tutto il resto è in forse. Non sappiamo se ci sarà il campo largo, il campo larghissimo, il campetto piccolo. Gli altri che non siano del centrodestra non hanno ancora definito un loro posizionamento». La campagna di agosto sarà particolarmente accalorata. Da Lega e Forza Italia singoli parlamentari vanno ad aggregarsi in quell’Area Draghi che diventa polo d’attrazione. L’ex vice capogruppo della Lega alla Camera, Francesco Zicchieri, è entrato ieri in Italia Viva, che sta facendo incetta di nuovi acquisti. «Renzi è un leader che mette al centro gli interessi degli italiani e non quelli del partito e dei sondaggi. E lo ha fatto fino all’ultimo cercando di lavorare per l’avvento di Draghi: la sua è una grave perdita», sostiene. Scelta diversa per Andrea Cangini, che ha lasciato Forza Italia dopo aver votato la fiducia al governo Draghi in dissenso da FI. L’ex direttore del QN ha scelto Azione di Calenda. «All’Italia serve un politica realista, competente, coraggiosa: per questo, preso atto della demagogia dilagante, ho deciso di aderire ad Azione e aiutare Carlo Calenda a costruire un polo liberale che non si limiti a denunciare i problemi, ma sia anche capace di indicare soluzioni ragionevoli».

Calenda dal canto suo ha messo giù le sue condizioni. Un programma di massima al quale aderire. «La discussione e l’adesione a punti veri. Sottoporremo a tutte le forze politiche democratiche ed europeiste una proposta. Aperti a discuterne rapidamente». Desistenza sui collegi? «A legge elettorale costante non si riesce a fare». Però vi riconoscete nell’agenda Draghi. «Sì, noi sì. Ma Sel, Orlando, Bonelli, Emiliano e compagnia anche?». Ma parlare di Draghi senza Draghi in campo… «Sono d’accordo, per questo parleremo di agenda di un Fronte Repubblicano che non è limitata a quella di Draghi».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.