Gli altri dove sono finiti?
Berlusconi batte Renzi e Calenda e rilancia il garantismo con la legge Pecorella: Meloni e Salvini non possono dirgli di no
Finalmente qualcuno ha rotto il silenzio sulla giustizia, in questa calda pazza ferragostana campagna elettorale. Questo qualcuno si chiama Silvio Berlusconi, e non è strano il suo essere arrivato primo, un po’ perché è suo costume (e guai se non fosse così), un po’ perché l’argomento gli sta a cuore da sempre. Quel che è stupefacente è la ritrosia, o meglio afasia, di tutti gli altri partiti. Quello di Letta perché ormai non è più né carne né pesce, peggio dei tempi di Walter Veltroni con i suoi “ma anche”, e forse un pugno di garantisti li ha già fatti fuori dalle liste.
Ma dove sono Renzi e Calenda, che parevano aver impugnato la bandiera dello Stato di diritto negli ultimi mesi, per sottrarla a Forza Italia, dopo averle scippato qualche parlamentare? La giustizia non porta voti, certo, e ancor meno il problema delle carceri, anche se sono ormai 53 i suicidi, assassinati dallo Stato e le sue distrazioni. Su questo poi, il silenzio è tombale, e mai aggettivo fu più vicino alla realtà. Unica pronta reazione pavloviana quella del sindacato dei magistrati, quindi. Berlusconi è stato protagonista attivo e passivo, ieri. Perché ha lanciato un glorioso cavallo di battaglia, la non impugnabilità delle sentenze di assoluzione. E anche perché ha ricevuto le carezze di un paio di quotidiani, di cui solo uno era ampiamente scontato. Rilanciare la “Legge Pecorella” è stato un colpo di genio.
Perché è impossibile che l’iniziativa non trovi il consenso dell’intero centrodestra, il che di questi tempi non accade ogni minuto, e quindi rende forte come una roccia il leader di Forza Italia. E anche perché crea uno spartiacque netto che separa lo schieramento da quello opposto. Il Pd che, quando la legge numero 46 del 20 febbraio 2006 fu approvata, non seppe fare di meglio se non strillare che era la solita norma “ad personam”. Quanto a Giuseppe Conte e al Movimento cinque stelle, che ancora non esisteva, si può sempre trovare nell’archivio degli spettacoli comici un bel Beppe Grillo che dal suo palcoscenico disse che il Governo Berlusconi terzo avrebbe presto abolito l’intero codice penale. Almeno era spiritoso.
Andò loro in aiuto la Corte Costituzionale che un anno dopo abrogò la parte fondamentale di quella legge, mantenendo nella sostanza solo l’innovativo principio dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”. Entrando quindi in contraddizione con se stessa, oltre che con le indicazioni dell’Unione Europea. Perché, dal momento che la prova si forma in aula nel contraddittorio tra le parti davanti al giudice, a meno che il pm non porti nuovi indizi, che cosa può essere cambiato nel secondo processo se l’imputato è stato assolto in primo grado “oltre ogni ragionevole dubbio”? Ma l’argomento decisivo, quello che mozzò la testa alla “Legge Pecorella” fu la presunta violazione del principio della parità tra le parti, tra accusa e difesa. Il che, nella patria del “piemmone”, il pm grande quanto la donna (o l’uomo) cannone, il soggetto che ha più potere del papa e del presidente della repubblica e del premier messi insieme, farebbe sorridere, se non fosse irriverente nei confronti della Consulta.
Alla quale, lo ha mostrato per lo meno in quell’occasione, evidentemente sta poco a cuore il principio anglosassone -il cui rito accusatorio dovremmo aver importato con la riforma del 1989- del “double jeopardy”, cioè della doppia incriminazione. Quello che i romani, i veri inventori di quel sistema processuale, battezzarono come “ne bis in idem” . Ma non ci fu nulla da fare, troppo potere hanno i pubblici ministeri nel nostro Paese, come ha più volte scritto e documentato su questo giornale il professor Beppe Di Federico. E del resto, quando il presidente emerito della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi, cui la ministra Cartabia aveva affidato la presidenza della commissione di riforma, aveva riproposto la non impugnabilità delle sentenze di assoluzione, la norma non è passata. Tale e tanto è il condizionamento delle procure, superiore persino alla competenza tecnico-giuridica di un presidente dell’Alta Corte.
Poi naturalmente ci sono vassalli e valletti, sempre pronti a consolidare quel potere. Nessuno stupore perché Travaglio e travaglini martellano da giorni, moltiplicando le loro pagine di giudiziaria, forse ritenendo di fare cosa gradita al movimento di cui il direttore del Fatto è leader incontrastato. Ma ieri ha mostrato il petto alle baionette Peter Gomez, direttore di Il Fatto.it, il quale ha lanciato gli slogan che dovrebbero prendere il posto del vetusto “onestà-onestà”. E sono “legalità-antimafia-anticorruzione”. Entusiasta naturalmente per i due pm che più antimafia non si può, candidati, e con una lacrimuccia perché nessuno più ricorda che ci fu anche Pietro Grasso, a presiedere il Senato, e nessuno gli sta offrendo un posto in lista, a prescindere del suo desiderio di esserci ancora. Naturalmente l’articolo non disdegna di occuparsi del “pregiudicato” Berlusconi.
Ma le sue sono veramente carezze, se paragonate a un incomprensibile e come sempre analfabetico articolo del primo cronista giudiziario del Corriere. Due colonne di piccolo veleno sputato sulla “infornata di condannati definitivi che nel disinteresse generale sta per affollare le liste della destra”. E poi il colpo finale, quello che si spara alle spalle quando si ha poco coraggio: “Persino la ricandidatura di Silvio Berlusconi ha tenuto bando poco e solo sotto il profilo politico del suo ritorno in Senato, nell’oblio invece dei motivi di una condanna per frode fiscale…”. È la nuova linea da campagna elettorale del Corriere? Un suggerimento per Enrico Letta e Giuseppe Conte?
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