Al primo paragrafo del “punto 3. Riforme istituzionali, della giustizia e della Pubblica Amministrazione secondo Costituzione” si legge “elezione diretta del Presidente della Repubblica”. Il programma è quello del centrodestra, sottoscritto dai leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, quello della Lega Matteo Salvini e quello di Forza Italia Silvio Berlusconi. Proprio quest’ultimo ha scatenato la polemica sulla questione dopo le dichiarazioni in un’intervista a Radio Capital.

L’Italia è una Repubblica Parlamentare “democratica, fondata sul lavoro”, si legge all’articolo 1 della Costituzione “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Il sistema prevede la centralità delle due aule del Parlamento, Camera e Senato, elette dai cittadini. I parlamentari eleggono il Presidente della Repubblica, ogni sette anni, che a sua volta dà mandato a un Presidente del Consiglio incaricato di formare un esecutivo. Il premier deve poi ottenere la fiducia dai due rami del Parlamento.

Al contrario la Repubblica Presidenziale o Presidenzialismo sposterebbe il potere esecutivo nelle mani del Presidente che diventerebbe sia Capo dello Stato che Capo del governo. Figura eletta direttamente dai cittadini che ha il compito di formare il governo, senza il voto di fiducia in parlamento avendo già avuto mandato dalla maggioranza dei cittadini. Non sarebbe più una figura di garanzia e avrebbe più poteri come porre il veto alle decisioni delle Camere, svolgere compiti legislativi, dirigere la politica estera, nominare gli alti funzionari. Il Capo dello Stato può essere rimosso in caso di reato, per alto tradimento ad esempio, e non può sciogliere il Parlamento a suo piacimento.

Esempi di Repubblica Presidenziale sono gli Stati Uniti, l’Argentina, il Cile, il Brasile, il Messico, l’Uruguay, il Costa Rica e la Corea del Sud. Il sistema è dotato in questi casi della massima legittimità conferita dalle urne. L’iter per modificare la Costituzione è dettato dall’articolo 138 della Carta per le leggi di revisione e le altre leggi costituzionali “adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”.

Qualora un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali dovessero farne richiesta, le leggi sarebbero sottoposte a referendum popolare. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti valiti. “Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.

Nonostante la maggioranza schiacciante e netta che i sondaggi attribuiscono al centrodestra in vista delle elezioni politiche del prossimo 25 settembre, l’Istituto Cattaneo alla luce di un’indagine a partire dalle medie di tutti i sondaggi sostiene che al momento la coalizione non dovrebbe raggiungere i due terzi dei parlamentari che permetterebbero alla maggioranza di cambiare la Costituzione in autonomia, senza passare dal referendum popolare, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione.

Berlusconi ha riaperto il dibattito sul tema in maniera fragorosa: in un’intervista a Radio Capital l’ex premier ha dichiarato che “se la riforma dovesse entrare in vigore sarebbero necessarie le dimissioni” di Mattarella “per andare all’elezione diretta di un capo dello Stato che, guarda caso, potrebbe essere anche lui”.

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