Presidenzialismo, perché no? Ma chi ha paura del lupo cattivo? Nella sostanza il lupo cattivo è il centrodestra con la sua compattezza esibita come granitica che potrebbe portarlo al successo elettorale del prossimo 25 settembre. Ma aleggia un fantasma grande come la Costituzione “nata dalla resistenza”, il cui assalto paventato indossa ancora di più la veste del lupo cattivo. Un po’ come la mucca in corridoio evocata da Bersani. Si ondeggia tra il presidenzialismo che per Giorgia Meloni è “la madre di tutte le riforme costituzionali” e il “patto sull’autonomia” richiesto come punto fondamentale di programma elettorale dai governatori di Veneto e Lombardia, Luca Zaia e Attilio Fontana, e ben visto dal loro collega emiliano Stefano Bonaccini, con grande scandalo di un certo mondo della sinistra. Quello keynesiano in economia, proporzionalista nei sistemi elettivi e del “giù le mani dalla Costituzione”, affezionati a quella del 1948, più che se l’avesse scritta da solo di sera nella sua stanza Palmiro Togliatti.

Così, con questa angoscia in corpo, con il timore che la legge elettorale vigente -che però esiste da un bel po’, e nessuna maggioranza nel frattempo l’ha cambiata – possa nella sua parte uninominale e maggioritaria dare all’eventuale centrodestra vittorioso una bella fetta dei 147 seggi della Camera e nei 74 del Senato, si è cominciato a gridare al lupo. Alcuni lo hanno fatto in modo veramente scomposto, quasi gli Unni fossero alle porte. È partito il treno dell’antifascismo militante, anche usando il solito trucchetto dei riferimenti internazionali. Il succo pareva una presunta preoccupazione del mondo occidentale rispetto all’eventuale presenza di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Come se la leader di Fratelli d’Italia non fosse la stessa che in Europa presiede il gruppo dei conservatori  e se il medesimo Enrico Letta, capo del Pd ma ormai di una larga coalizione elettorale di sinistra, non l’avesse da tempo eletta a sua privilegiata interlocutrice.

Ma gridare al lupo forse non basta più, non sono più i tempi in cui Silvio Berlusconi, che oltre a tutto proviene da una famiglia antifascista, veniva chiamato “l’uomo nero”, e non certo per il colore della pelle. Infatti sono insorti, insieme all’ovvio dei partiti di centrodestra, un bel po’ di intellettuali, costituzionalisti, giuristi, politologi, sociologi, i quali hanno preso in prestito addirittura il “Liberi di scegliere” di Milton Friedman, il premio Nobel monetarista contrario all’intervento statale nell’economia, alla cui scuola di Chicago si iscrisse un esponente di prestigio del centrodestra italiano, Antonio Martino.

È bastato scrivere poche righe e raccogliere firme su liberidiscegliere2022.gmail.com, per arrivare a quota cento in poche ore, due giorni fa. Succedeva proprio mentre sui quotidiani Il Fatto e Il Manifesto uscivano appelli accorati contro l’assalto alla Costituzione, paventato da esponenti di sinistra che usavano proprio gli argomenti oggetto di preoccupazione dei cento accademici neo “Chicago-boys”. Destra contro sinistra, dunque? Assolutamente no. Anche perché risulterebbe veramente difficile qualificare come amici di Giorgia Meloni questi primi firmatari: Antonio Baldassarre, Paola Balducci, Franco Bassanini, Sergio Belardinelli, Pietrangelo Buttafuoco, Enzo Cheli, Felice Giuffré, Giovanni Guzzetta, Andrea Patroni Griffi, Ida Angela Nicotra, Luca Ricolfi, Giovanni Russo, Giulio Terzi di Sant’Agata e Luciano Violante.

Il documento affronta il tema della “delegittimazione” e delle “campagne denigratorie, che purtroppo hanno contraddistinto la prima fase della campagna elettorale”. Naturalmente il monito è rivolto al mondo della politica tutto intero, e non a quello degli intellettuali e giuristi di sinistra che, in particolare dalle colonne del Manifesto, stanno facendo una vera campagna di allarme e demonizzazione non delle persone, ma delle loro intenzioni. Ma colpisce il fatto che coloro che chiamiamo affettuosamente e ironicamente “Chicago boys” si appellino proprio ai principi costituzionali, difendendoli ed esaltandoli, mentre dicono di voler essere liberi di scegliere. Poter scegliere anche il peggio, potremmo estremizzare. Ma liberi. Perché occorre riconoscere il diritto di tutti ad aspirare alla guida del Paese con il consenso degli elettori.

Non paiono pensarla così gli autori dell’appello, pubblicato sul Manifesto e quasi in copia sul Fatto con la firma di Alfiero Grandi, i quali lanciano l’allarme perché “in gioco c’è il futuro del Paese e della democrazia”. Il discorso è molto ambiguo, perché con molta abilità gli autori dell’appello non dicono mai che il centrodestra è composto da partiti che sognano regimi autoritari, ma nei fatti è così. Perché si rivolgono a “quanti ritengono che nessuna maggioranza possa cambiare da sola la Costituzione”, per incoraggiarli a “bloccare questa deriva”. Ma quale deriva? Il titolo dell’appello sul Manifesto è chiarissimo: “Coalizione d’emergenza contro la destra”. Elementare. Non attacchi la persona, o esplicitamente il partito, ma lanci l’allarme sulle sue intenzioni, sui suoi programmi. Senza però spiegare se i cittadini americani, dove vige un pieno sistema presidenziale per di più federale, o i francesi con il semipresidenzialismo, siano tutti vittime di regimi autoritari.

Torniamo quindi alla Costituzione, e agli articoli citati dai neo Chicago-boys”. Si parte dall’articolo 2, che “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, accanto a quelli di solidarietà sociale ed economica”. È la base dei doveri di ciascuno di noi di agire “senza mettere in discussione quel minimo comune denominatore fondato sulla pari dignità sociale dei cittadini su cui si regge la convivenza politicamente organizzata”. Molto di più che il rispetto, dunque, ma proprio la vita di comunità. Un argomento che dovrebbe essere il pane quotidiano per la sinistra. Insieme ai principi previsti dall’articolo 21, quello che riconosce pari dignità a ogni espressione del pensiero, nobilitato infine dall’articolo 49 sul “rispetto del metodo democratico nella competizione tra i partiti”.

Quello che dovrebbe essere chiaro a tutti è proprio il concetto della libertà di scelta e del riconoscimento della pari dignità delle opinioni e dei programmi, all’interno di un sistema liberale, prima ancora che democratico. Ed è sicuramente vero che le riforme costituzionali dovrebbero essere condivise da tutti. Ma il presupposto è che ci sia la reciproca legittimazione. Cosa che per ora non si vede all’orizzonte.  Ed è ancora più vero, come ha scritto ieri sul Riformista il professor Michele Prospero, che un’assemblea costituente sarebbe la sede più adatta a riforme costituzionali radicali come l’introduzione del presidenzialismo e il federalismo. Ma nella Costituente bisognerebbe entrare con animo sgombro, dando alla storia il valore di storia, avendo la forza e il coraggio di avere uno sguardo lungimirante che sappia costruire senza sentire il bisogno di evocare i fantasmi del passato (dalla fiamma alla falce e martello) per delegittimare il presente e per costruire il “nemico”. Spirito di comunità, appunto. Secondo la Costituzione.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.