Si parla del dito ma è la luna quella che conta. Dove per “dito” s’intende la premiership e la “luna” è avere chiaro perimetro e tipologie dei 600 collegi tra Camera e Senato e candidare le persone giuste. “Altrimenti – scrolla la testa un vecchio lupo di Forza Italia fedelissimo del Cav sempre e comunque – il vantaggio dei sondaggi ce lo mangiamo nelle urne tra un meno di due mesi”. Perché non è il premier bensì la suddivisione dei collegi il vero problema del centrodestra. Che anche ieri sera non è stato risolto. Ma il tempo è poco – le liste vanno depositate il 22 agosto – e le complicazioni figlie del mix legge elettorale/taglio dei collegi (da 945 a 600) mettono a dura prova anche i più esperti.

Il vertice c’è stato. La soluzione dei problemi meno. Giorgia Meloni ha ottenuto di farla finita con i “ritrovi privati in villa”. Così Silvio Berlusconi è tornato ieri a Montecitorio per raggiungere la sala Garibaldi, cioè la sala riunioni del gruppo Lega. Non a villa Grande ma neppure al gruppo Fratelli d’Italia. Il compromesso è stato incontrarsi al gruppo Lega. Giusto per dire a che punto stanno i rapporti fra i tre principali alleati. Intorno al tavolo in salone Garibaldi, Berlusconi, Tajani e Ronzulli per Forza Italia, Salvini e Calderoli per la Lega, Lupi (Nci), Cesa (Udc) e Brugnaro (Coraggio Italia) i cespugli centristi che Berlusconi si tiene stretti come l’oro per non finir al traino di Meloni e Salvini.

Il Cavaliere non tornava alla Camera da febbraio 2021. Allora fu accolto da Mario Draghi – si salutarono a colpi di gomito causa Covid – nel salone scelto per le consultazioni che portarono alla formazione del governo di unità nazionale. C’è tornato ieri dopo aver contribuito a staccare la spina al governo Draghi e come leader di uno dei partiti del centrodestra che si candida alla guida del Paese. Neppure una parola all’ingresso. E neppure all’uscita. La sintesi dell’incontro che “si è svolto in un clima di totale armonia e collaborazione” riferiscono i vari staff, è stato affidata ad un comunicato. Segno che le cose non sono andate così bene. Anche perché verso le 19 dalla sala Garibaldi uscivano previsioni di una “conclusione imminente” con tanto di dichiarazioni live a margine. Giornalisti e telecamere appostate in via della Missione ma non s’è visto nessuno.

Sulla leadership, che è il nodo che più ha infiammato gli animi nei capannelli di centrodestra in questi giorni, è stato raggiunto un accordo di facciata: “Decideranno gli elettori”, ovverosia sarà premier il leader del partito della coalizione che prenderà più voti. Giorgia Meloni sbaglia se pretende di essere indicata ora. Ha ragione quando dice che è un “metodo” che va confermato, cioè il diritto della premiership è del partito più votato. Tanto rumore per nulla, quindi? Dietro l’accordo sul metodo resta intatta tutta la diffidenza rispetto al fatto che possa essere Giorgia Meloni a guidare il governo. Su questo punto Forza Italia e Lega hanno un accordo ferreo: impedire ad ogni costo di essere guidati dall’alleata. La candidatura di Antonio Tajani da parte dei vertici del Partito popolare europeo è stato un dito nell’occhio in entrambi gli occhi di Giorgia Meloni nella sua doppia veste di leader di Fratelli d’Italia e di presidente del partito dei Conservatori europei avversari del Ppe a Bruxelles e, soprattutto, fuori da quella maggioranza Ursula che ha portato ai vertici della Commissione Ursula von der Leyen.

Dopodiché c’è Salvini che sbarbato e in bermuda (non ieri) è tornato nella modalità che più preferisce – quella della campagna elettorale – candidandosi a guidare palazzo Chigi o, in subordine, il Ministero dell’Interno. E’ ancora lunga e piena di curve la strada che deve portare Meloni a palazzo Chigi. Berlusconi non fa mistero con i suoi che “una campagna elettorale incentrata sulla corsa di meloni premier” farebbe perdere voti a Forza Italia che già ha il suo bel da fare nello spiegare al suo elettorato liberal, moderato, fatto di imprenditori e classe media, perché ha buttato a mare il governo Draghi. Sarà la vera battaglia nella battaglia. Che passa dal problema più serio perché più urgente: la suddivisione dei collegi. Fdi chiede il 50 per cento dei collegi uninominali o comunque una ripartizione proporzionale ai sondaggi che, nell’ultima media disponibile e anche la prima dopo la crisi di governo, danno Fdi al 25% (+1,2), Lega al 12,4 (-1,6) e Forza Italia al 7,1 (-0,3).

Salvini e Berlusconi non ci stanno e propongono un metodo che tenga insieme i sondaggi ma anche i risultati elettorali del 2018. Sul tavolo del negoziato anche il cosiddetto Patto anti-inciucio chiesto da Giorgia Meloni per evitare sorprese come nel 2018 quando la Lega strappò l’alleanza. Si disse, allora, alzando veti direttamente nelle consultazioni al Quirinale mentre Forza Italia ebbe il veto dei 5 Stelle. Un torto mai sanato e che Meloni vuole impedire che si possa ripetere. Insomma, un vertice con qualche buona intenzione ma poche soluzioni. Il problema è il tempo. E le liste. La cui formazione presuppone un’ottima conoscenza dei meccanismi della legge elettorale applicata su 600 seggi invece che 945. “Non vedo nessuno che sta facendo questo lavoro – osserva il fedelissimo del Cav – i sondaggi si devono trasformare in voti. Altrimenti sono inutili. E anche cattivi consiglieri”. Si chiama paura di vincere.

Alla fine l’accordo si chiude con Fratelli d’Italia che otterrà 98 candidature in altrettanti collegi, la Lega 70, Forza Italia e l’UDC 42, mentre 11 andranno a piccoli partiti centristi. Meloni insomma ottiene il 44,3 per cento dei collegi, meno del 50% chiesto prima di iniziare la ‘trattativa’. Non è ancora chiaro però quanti dei collegi assegnati ai vari partiti della coalizione siano ‘blindati’, ovvero considerati così favorevoli per una coalizione da rendere quasi certa la vittoria, e in quanti invece si stima un maggiore equilibrio nell’elettorato

Sarebbero tra i 70 e i 90 i collegi uninominali in bilico, quelli in cui si deciderà la coalizione vincente delle prossime politiche. L’Istituto Cattaneo ha già fatto alcune simulazioni e ha messo in evidenza un comodo vantaggio per il centrodestra nel 70% dei collegi uninominali che sono 74 al Senato e 147 alla Camera. Dopo di che in quei collegi vanno messi i candidati giusti. Sono storie diverse ma anche Milano e Roma, quando hanno dovuto eleggere il sindaco, hanno ribaltato sondaggi e pronostici. In favore del centrosinistra. Perché i candidati erano sbagliati.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.