Trent’anni dopo, il cavaliere scende di nuovo in campo e, in risposta, il foglio di De Benedetti recupera le polveri bagnate del giustizialismo: Berlusconi “vuole usare le elezioni per cancellare la sua frode fiscale”. L’infinito duello tra i resti dei due imperi editoriali impedisce ancora di cogliere la portata politica del fenomeno Berlusconi.

Nel 1994 il cavaliere vinse sdoganando i missini, alleati subalterni. Oggi si ripresenta agli elettori più per contenere la sfumatura di nero che domina nella destra che per acciuffare la vittoria. I vertici a villa Grande gli hanno restituito l’immagine di una nuova rilevanza coalizionale, che però non è paragonabile alla leadership piena che da Arcore esercitava negli anni di dominio. Ora si accoda agli eventi, non li determina con un vero effetto di padronanza. Lo accusano di essere il killer di Draghi per prendere il posto della Casellati. Ma al cavaliere non restava che seguire l’onda dinanzi a Salvini che dichiarava la crisi. Stanco degli attestati di agente ormai responsabile, il capitano leghista rinunciava alla parziale condizione di vantaggio rispetto ad una Meloni che continua a seguire istinti antichi. La postazione di governo, in condizioni di guerra e di lavoro povero con inflazione record, logora e, respingere l’egemonia della signora in nero, diventa ancora più proibitivo.

Giorgia Meloni, per ideologia, storia, linguaggio e immagine di leader, è troppo distante dalle preferenze simboliche di Berlusconi. Il cavaliere ha imposto il comico come forma della politica, cioè ha inventato uno stile di comunicazione del potere che poi si affermerà ovunque, prima con Sarkozy e poi con Trump, Johnson. Narrazioni, induzione al divertimento, giochi verbali ed elevata informalità lo caratterizzano. Poco a che vedere, però, con le esagerazioni demagogiche e le esuberanze teatrali al ribasso di una statista che recita come la “pesciarola”. Il comico in politica nella versione berlusconiana non sopporta la discesa nel popolaresco più greve, rinvia a costruzioni ardite nel campo delle fiabe a lieto fine, stuzzica il desiderio galoppante nel tempo del narcisismo consumista. Meloni non evoca immaginari, sogni, leggerezza, ma cadenze che paiono sin troppo terrestri per piacere al cavaliere dell’immaginario. Troppo ancorata al canovaccio di “madre e cristiana” con gli anfibi pesanti per affascinare il campione della seduzione e del consumo come ideologia.

Il comico di Berlusconi non è quello inventato dalle reti di Guglielmi, che ha espresso un comico di opposizione. Questo tipo di satira partigiana ha contribuito, nel gioco tra finzione e smascheramento, alla ascesa di Grillo che, dalla recitazione con il cosiddetto linguaggio maleducato, passava alle funzioni di capo politico interprete della rabbia con parole per altri indicibili. E’ il comico come struttura semantica della personalizzazione del potere e non quello del “linguaggio della realtà” quello che invece il cavaliere incarna. Berlusconi è l’espressione della decostruzione dello Stato weberiano impersonale ed astratto. Il capo che recita, intrattiene, diverte è un passaggio della personalizzazione del potere che perde forma. Anche la centralità della metafora e del comportamento sessuale rientra in questa rappresentazione del potere come prerogativa della persona e non solo dell’ufficio. Già Marx, nello studio sulla teatralizzazione carismatica del bonapartismo, ricordava “le orge che Bonaparte celebrava ogni notte con la canaglia elegante di sesso maschile e femminile, quando si avvicinava la mezzanotte e le abbondanti libagioni snodavano le lingue ed eccitavano la fantasia”.

Il discorso sulle orge del potere non era però la chiave dell’interpretazione del bonapartismo, ma una divagazione sul terreno delle pratiche ludiche dei capi carismatici. Non le preferenze sessuali, ma la costruzione di una post-moderna oligarchia elettiva, con una privatizzazione del politico che spezza il quadro weberiano del superamento del patrimonialismo politico come conquista definitiva della razionalità occidentale, è la chiave esplicativa dell’epoca di Berlusconi. Egli anticipa la post-democrazia e non è una mera anomalia mediterranea. Le cene eleganti di Arcore sono state invece assunte come la sostanza del berlusconismo, con le 10 domande di “Repubblica” e gli infiniti riti processuali. Il fatto è che chi lo chiamava “il ragazzo Coccodé” ha contribuito all’ascesa del cavaliere. Ad innescare la miccia che indusse Mediaset ad organizzare in fretta il partito personale-aziendale, come autotutela degli interessi minacciati, fu senza dubbio una copertina estiva dell’Espresso (“simul stabunt vel simul cadent”). Il settimanale connetteva la disgrazia di Craxi con l’inevitabile decadenza del Biscione ed esaltava il proposito del governo tecnico a guida Ciampi di entrare nello spinoso mondo della regolamentazione della televisione privata.

A favorire l’ascesa del “cavaliere nero” fu, senza dubbio, la cultura antipolitica alimentata dal gruppo editoriale l’Espresso. L’auspicio di Eugenio Scalfari nei primi anni Novanta era che avvenisse la “distruzione della nomenclatura o classe politica inamovibile e priva di effettiva rappresentanza”. Una delle grandi penne del secondo dopoguerra sognava la grande discontinuità e raffigurava “la nomenclatura come regime, la partitocrazia come regime” e come liberazione dal male invocava fortemente “la liquidazione dei capi della nomenclatura”.
L’eterogenesi dei fini colpisce spesso in politica. Il fondatore di “Repubblica” pensava che il suo inno alla “protesta confusa, qualunquistica”, la sua comprensione per “le schiere che cingono d’assedio il palazzo”, portassero ad una democrazia post-partito guidata dalle élite più illuminate (“È venuto il tempo che la società civile rivendichi il suo ruolo di protagonista e prenda in mano direttamente la gestione della nazione”).

Scettico sul Pds, descritto come “un passerotto”, le sue carte le affidava ai signori della tecnica, che sulla scia di Carli recidevano l’economia mista, e al movimento referendario, celebrato come “la chiave per aprire il portone ferrato del Palazzo, scacciarne gli inquilini, aprire le finestre e farvi entrare aria fresca e limpida”. Non fu però Segni, come auspicato, ad “abbattere le porte del kafkiano castello e farvi entrare il popolo sovrano”, ma Berlusconi, che raccolse i frutti, per la sua “società civile” assai meno riflessiva, dell’onda distruttiva dell’antipolitica amplificata dai grandi giornali. L’altra suggestione del partito mancato di Repubblica, l’alleanza tra la gente e Samarcanda per infliggere un bel “colpo d’ascia ai poteri corporati”, “dare alla società civile i mezzi per ripulire le stalle” e definire “il partito che non c’è”, favorì invece la Lega. Alla “Lega nazionale degli onesti” sognata da Scalfari, per “riformare nel senso auspicato dalla gente” le decrepite istituzioni, il popolo reale preferì la Lega secessionista del Nord che invase Montecitorio con un personale politico del tutto improvvisato.

In coerenza con le asserzioni di Scalfari, favorevole a “maggioranze trasversali” che si estendono oltre i contrasti ideologici e ostile verso “la statuaria indifferenza della classe governante”, Giorgio Bocca, il dissacratore del “piccolo Cesare”, decise (come poi fece, del resto, anche Travaglio) di schierarsi nella “gabina” elettorale con Bossi, stigmatizzando ogni “fobia della Lega”. Su “Repubblica” Bocca, nemico della partitocrazia, confessò di aver “votato Lega senza turarmi il naso perché sono convinto che il nostro Paese abbia ancora bisogno della forza d’urto che la Lega è”. Il suo “grazie barbari” comportava un vero inchino referente alla Lega che “nuotava nelle acque vorticose del mutamento” e con la sua carica di “ostilità-estraneità al regime” prometteva non una semplice “sovversione vociferante”, ma una nuova Costituzione da imporre contro il sistema dei partiti.

Il partito imperfetto di Repubblica è stato, per certi versi, un berlusconismo incompleto. Al culmine della parabola del cavaliere, Scalfari, pur denunciando i guasti del “governo del pifferaio magico”, auspicava che una variante di populismo attecchisse a sinistra grazie a porzioni magiche di “incultura e semplicismo”. Egli sollecitava la sinistra a coniugare sogni (affabulazione, narrazione) e realismo (dimestichezza con il governo) attraverso il “semplicissimo criterio del nuovismo” come ingrediente per la fabbricazione artificiale di “leader carismatici”, capaci di andare oltre “le nomenclature spremute e non più utilizzabili di partiti”. Essenziale per il virtuale partito di Repubblica, che non riesce a diventare mai partito effettuale, è sempre stata la necessità di estirpare un partito con una ideologia e una autonoma capacità di pensare le politica.

Nelle parole di Scalfari “l’aggettivo ‘socialista’ evoca in realtà la decrepitezza culturale e i compromessi trasformistici della Seconda lnternazionale”. Incapace di fare un proprio partito, il gruppo editoriale contribuisce alla decostruzione identitaria del partito “amico”. Solo l’autodissoluzione dei post-comunisti per archiviazione di identità e pensiero critico avrebbe conservato un potere di influenza al partito che non c’è. Si è così spalancato un deserto, un vuoto culturale che è stato riempito a sinistra con candidature pseudocarismatiche, presto decadute e oggi occupate ad emulare sui giornali le virtù di Demostene nella stesura delle funebri orazioni. Nel deserto delle idee sono infine penetrate la voce, il gesto, la provocazione, la ritualità blasfema del comico: lo “tsunami tour” è stata la messa in scena del corpo di un divo che, con l’impegno di mandare a casa tutto il ceto politico, cercava nello spazio reale un contatto sensibile con i corpi presenti nel luogo fisico e politico per antonomasia, la piazza stracolma.

Il nuovismo e il giustizialismo hanno stracciato le culture politiche e l’antiberlusconismo è apparso come un effimero surrogato identitario. Oggi, comunque, il cavaliere non vuole lo scettro per sé, si accontenta di disturbare la marcia d’ottobre dell’alleata “donna, madre, cristiana” che in cuor suo forse disprezza. Egli cerca di ostacolarla come può, sottraendole qualche voto per favorire Salvini nella disputa per la conquista di una leadership che non sarà più sua. Riuscisse, grazie ai suoi voti, a far sì che il capitano e la signora in nero insieme non raggiungano la maggioranza assoluta, fornirebbe un servizio in fondo utile anche alla repubblica raggelata dinanzi alla crescita di una fiamma tricolore che ovunque turba.