Lo strapotere della magistratura e la politica
Politici genuflessi ai magistrati, cosi riformare la giustizia è impossibile
La questione giustizia lambisce appena una campagna elettorale che, a tutta evidenza, ha grane decisamente più importanti di cui occuparsi di questi tempi. La sortita di Silvio Berlusconi sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm ha riacceso una polemica che covava sotto le ceneri da parecchi anni e ha riproposto un tema particolarmente avvertito dalle camere penali e dalla magistratura italiana, come ha dimostrato la pronta reazione dell’Anm all’incursione forzista.
Non c’è dubbio che il tema del più complessivo riposizionamento del potere giudiziario nella geometria costituzionale del paese sia una questione importante che non può essere certo risolta a colpi di polemiche o con micro-interventi per appagare le ansie garantiste di questa o quella forza politica. Riposizionamento, si badi bene, che non vuol dire un ridimensionamento della funzione giudiziaria, ma la ricerca di un più corretto riequilibrio tra le varie articolazioni del potere pubblico fra loro e, soprattutto, verso i cittadini.
In questa traiettoria non si deve dimenticare che la riforma più incisiva è venuta dal governo Conte, ossia da quello a trazione pentastellata, che ha praticamente abrogato il vituperato abuso d’ufficio (articolo 323 Cp). Così si è alleviata la posizione di tanti pubblici amministratori sotto processo che o sono stati assolti grazie a quella modifica o, comunque, non subiranno più indagini per quel reato che più di ogni altro costituiva il confine incerto e ondivago dei rapporti tra magistratura e politica. Il tema del controllo giudiziario, nella declinazione cara a molte toghe del cosiddetto controllo di legalità, sta ai margini della contesa elettorale, resta sottotraccia sebbene sia la madre di tutte le battaglie per le parti contrapposte di questa contesa.
Le ragioni che hanno favorito l’espansione di questo controllo in tutti i gangli della vita politica e sociale è questione che non può essere neppure lambita in questa sede. Quel che può farsi è segnalare e mettere sotto osservazione tutti i casi in cui questa preminenza del potere giudiziario sulla politica non è tanto affermata dal primo a colpi di avvisi di garanzia o di arresti, quanto è riconosciuta dalla stessa politica come atto di naturale sottomissione a fronte di una propria crisi cui non riesce a porre rimedio se non genuflettendosi alla pretesa superiorità delle toghe. Stefano Castiglione e Alberto Stancanelli. Due nomi che a tanti dicono poco o nulla. Due stimatissimi magistrati della Corte dei conti di alto livello professionale ed etico ben conosciuti tra gli addetti ai lavori.
Il primo nominato dalla sindaca Raggi capo di gabinetto del comune di Roma qualche tempo or sono, il secondo nominato dal sindaco Gualtieri capo di gabinetto del comune di Roma. Insomma, due magistrati nel posto più importante dell’amministrazione capitolina e in un comune delle dimensioni della Capitale. Un incarico capace di condizionare in modo decisivo la vita di migliaia e migliaia di dipendenti, di decine di società partecipate, di milioni di cittadini. Alberto Stancanelli è stato chiamato a coprire questo posto-chiave il 20 agosto scorso, dopo che la pubblicazione del video della violenta lite di Frosinone aveva costretto alle immediate dimissioni Albino Ruberti, capo di gabinetto del sindaco di Roma.
A fronte di una fibrillazione evidente del sistema amministrativo della Capitale, il sindaco Gualtieri non ha potuto, o saputo, far altro che aprire la cassetta del pronto soccorso politico e tirar fuori il nome di un prestigioso magistrato della Corte dei conti. Tra centinaia di dirigenti comunali e regionali o tra centinaia di funzionari apicali nei ministeri romani – primo tra tutti quello dell’Economia che il sindaco in carica ben conosce per averlo diretto con autorevolezza – la scelta è caduta su una toga. Che si tratti di un giudice contabile o di un giudice amministrativo o ordinario, la questione non cambia. Platealmente e senza alcun tentennamento la politica tutta – stante la risonanza mediatica del minacciato regolamento di conti frusinate («Se devono inginocchia’ e chiede scusa, io li ammazzo» avrebbe detto il reprobo) – ha optato ancora una volta per un giudice.
Il segnale è chiaro: badate bene, purtroppo, moralità e competenza non sono abituali commensali in questo paese e se occorre rassicurare i cittadini elettori in uno snodo così delicato e per un fatto così increscioso è bene appellarsi alla riserva strategica della nazione che sono o i generali o i magistrati. Con la differenza che, mentre i primi sono totalmente alle dipendenze del potere politico per la loro collocazione istituzionale, gli altri costituiscono un ordine autonomo e provvisto di un proprio carisma costituzionale. Accade, quindi, che mentre si schermaglia sulle briciole e sui lembi più marginali della questione giustizia, la politica con solerzia e senza alcuna incertezza proclami, per l’ennesima volta, la propria subalternità a un potere “altro” da sé e, per giunta, per farsi affiancare nell’esercizio di rilevanti prerogative che i cittadini le hanno affidato con il proprio voto.
David Lyon scrisse anni or sono un libro dal titolo struggente e suggestivo (“La società sorvegliata”, Feltrinelli, 2002) che evocava i rischi della diffusione delle tecnologie per il controllo della vita quotidiana dei cittadini, soprattutto dopo l’11 settembre. Esistono altre forme di sorveglianza ovviamente che, tuttavia, come quelle tecnologiche, devono essere contrastate o, almeno, arginate. Ma per farlo è necessario che i poteri sorvegliati non stiano a riconoscere, alla prima crisi, la superiorità etica e di competenza dei sorveglianti i quali – anche i migliori – avvertono la portata politica e istituzionale di queste investiture. E’ proprio di questa legittimazione, invero ulteriore, che profittano le componenti corporative e autoreferenziali del potere giudiziario (complessivamente inteso) per ergersi a una sorta di Camera stellata. Ossia a somiglianza di quella Corte che aveva sede presso il Palazzo di Westminster tra la fine del XV secolo e la metà del XVII secolo e che aveva il compito di giudicare i potenti del tempo.
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