Il risultato elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo ha in Italia i suoi chiari vincitori. Anzi, vincitrici. A parte il segno di “genere” del nostro tempo storico-politico, fattore sicuramente interessante, l’inequivocabile e imprescindibile aritmetica – indispensabile per l’assegnazione dei seggi – veicola anche altre questioni meritevoli di attenzione. Una di queste riguarda i motivi della sconfitta dell’area del cosiddetto centro moderato, riformista, liberal-democratico. L’attenzione di tutti per il momento è concentrata sulla rissosità di coloro che in questa occasione hanno provato a rappresentarla: Bonino, Calenda, Renzi. Indubbiamente la dispensa dei tre è piena di ingredienti per cucinare una simile narrazione. Ma non credo che sia tutto. Infatti un numero non trascurabile di potenziali elettrici ed elettori delle liste di questa area ha scelto alla fine di votare in un certo modo nonostante, ad esempio, il forte e ambizioso richiamo costituito dalla denominazione di una delle due liste in questione: Stati Uniti d’Europa.

Perché mai? Lo spostamento si è avuto man mano che ha preso il sopravvento, nella scala delle valutazioni dei singoli, il “sentimento” nazional-popolare antifascista, ben nutrito sia dai professionisti del marketing politico di “ora e sempre resistenza” che dagli errori di alcuni dei più stretti collaboratori di Giorgia Meloni, enfatizzati da qualche sua improvvida e ingarbugliata dichiarazione (come il caso Rai-Scurati). Così una quota parte delle preferenze che potevano andare alle liste di centro si è riversata sulle liste la cui identità offre maggiore appiglio contro la paura di una involuzione autoritaria del sistema politico nazionale. È in questo panorama che si è imposta una bipolarizzazione che, sommata ai soggettivi errori dei protagonisti centristi, ha compresso e mortificato una anche un pur labile possibilità di successo di almeno una delle due liste in campo.

Emerge da questo un’indicazione per il futuro? La prima indicazione dovrebbe essere tratta da Giorgia Meloni. Il suo tentativo, legittimo e verace, è quello di emancipare la sua parte politica da consunte radici fasciste: i suoi discorsi (come quello tenuto in occasione della recente Festa della Repubblica), pur essendo passi fondamentali per l’introiezione dell’antifascismo in Fratelli d’Italia, necessitano di molto tempo per sedimentarsi nella coscienza collettiva del paese, per tradursi cioè nel convincimento generalizzato che la destra italiana sia ormai una destra moderna che non minaccia più una involuzione autoritaria e fascista. Tutti gli apparati – piccoli e grandi, di “ora e sempre resistenza”, disseminati per l’Italia – continueranno a svolgere la missione storica che si sono assegnati e continueranno a essere vigili, a cogliere e amplificare ogni pur minimo e risibile elemento che si presti a esser additato come segnale di una destra/pericolo per la democrazia. Nei mesi prossimi, man mano che il processo di riforme istituzionali andrà avanti, diventerà sempre più consistente la tentazione di contrastarlo partendo da un “a lupo a lupo, arrivano i fascisti”.

Allora la domanda politica sorge spontanea: il ritorno al bipolarismo a chi è utile? Si impone indipendentemente dai numeri. E, a dire il vero, si impone anche grazie ai numeri. Infatti, andando a rivedere le percentuali dei risultati di questa tornata elettorale, l’insieme del fronte di liste che sarebbero eventualmente mobilitate da un atavico richiamo antifascista è (sempre in percentuale) superiore all’insieme delle attuali forze di governo. Questo calcolo dovrebbe indurre Giorgia Meloni a più attente riflessioni. Ma non esime le forze di centro dal riflettere, per proprio conto, su che cosa dovranno fare in futuro e sul problema se l’Italia abbia più da guadagnarci da un sistema bipolare o da un sistema tripolare.

L’importante è che la discussione sia vera, non ripieghi sui “caratteri” dei leader, sappia imporsi anche alle agende delle due protagoniste delle maggiori forze politiche di questo momento, e questo per la fondatezza del quesito che riguarda il sistema e non le soggettività. In altri termini, la risposta va trovata tutti insieme. Dovrebbe esser chiaro a entrambe le leader dei maggiori partiti che, in uno scontro fortemente ideologizzato, una delle due sarebbe perdente e l’altra – pur vincente – non sarebbe in grado di governare. Perché? Su sistema giustizia, istituzioni politiche, legge elettorale, lavoro, autonomia differenziata, porti, trasporto veloce, Rai, Difesa, Europa, Nato, Cina, Russia, Israele e Palestina il fronte mobilitato su sole basi ideologiche (seppure vincente) si sgretolerebbe ancor prima che sia ultimato il conteggio delle schede.

Ernesto Mostardi

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