Finiremo per dar ragione a chi elogia Donald Trump. Non tanto per ciò che fa, ma per ciò che provoca. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione ha celebrato i 43 giorni più dirompenti della storia. In effetti nessuno poteva sperare che in un mese e mezzo avrebbe riesumato un’idea solida di Europa. Avrebbe di fatto annullato la Brexit. Avrebbe restituito un ruolo-guida alla zoppicante Germania, che fino a ieri faceva di mestiere il ragioniere contabile dell’Unione. L’american dream di Donald è gonfio di velleità e di effetti-annuncio. Ma ha indotto il continente europeo a uscire dal “suo” sogno di sempiterna inerzia e immunità e mettere finalmente i piedi per terra.

Friedrich Merz usa persino le parole di Mario Draghi, «whatever it takes», ed è con queste che apre la nuova era: stimolo vigoroso all’economia e agli investimenti, e soprattutto debito e Difesa comune. È un riconoscimento all’ex presidente della Bce, che tra settembre 2024 e febbraio 2025 aveva assunto le vesti del leader politico, dicendo a chiare lettere che un’Europa a mezz’asta non serviva più a nessuno. “Non potete dire no a tutto!”, intimava. E lo diceva soprattutto ai tedeschi e ai loro amici “frugali”, alla von der Leyen e a tutti i teorici del circuito chiuso delle virtù finanziarie protette dalla Nato.

La svolta tedesca nel segno di Draghi

La svolta di Merz, che ha già smosso nel profondo i mercati e prefigura un ruolo propulsore di Londra e Berlino nel nuovo disegno, non era scontata. L’accordo con il socialdemocratico Lars Klingbeil segna una consapevolezza che era mancata per almeno due decenni: l’Europa può esistere solo come soggetto politico unitario. Il circolo di banchieri ossessionati dal debito a scapito del welfare, e di oltranzisti del green e altre distorsioni del politically correct, ha provocato solo il costante indebolimento e l’esplosione della destra estrema. L’Unione, fino all’irruzione di Trump, è stata incapace di qualsiasi iniziativa politica, fino a farsi dire dal nuovo presidente Usa che non sarebbe stata coinvolta nelle trattative sulla pace in Ucraina.

L’insegnamento della Guerra Fredda

Oggi il principale tema sul tavolo è quello della Difesa comune, che tante anime belle fanno coincidere con “la corsa al riarmo”. Come se fosse possibile difendersi senza riarmarsi. Come se la legge del più forte non l’avessero ribadita Putin e Trump, invertendo i ruoli di aggredito e aggressore e mettendo a tacere Zelensky con la frase “non hai le carte”. Quindi: non è che hai torto, non hai proprio titolo a parlare, perché la forza militare l’abbiamo noi e non i tuoi alleati europei. Si accusano gli europeisti di volere la guerra, come se la Guerra Fredda non ci avesse insegnato nulla: ci si riarmava proprio per non farla mai. Dopo i Pershing e i Cruise, l’Unione Sovietica imboccò il tunnel del definitivo crollo di una dittatura lunga 70 anni.

Sarebbe sbagliato definire la visione oggi sdoganata da Merz semplicemente keynesiana o espansiva. È una cura per la malattia cronica del tempo nuovo, la fine dell’ombrello americano che nel secolo scorso arrivò a sedurre persino il segretario del Pci Enrico Berlinguer. Un’Europa autonoma dagli Usa deve essere necessariamente orgogliosa di sé stessa, di saper produrre e innovare e anche di sapersi difendere. Nella politica europea pullulano le vedove dello “yankee go home”.

L’America è tornata a casa sua

Fino a ieri i nemici erano gli alleati americani. Oggi lo sono diventati gli europei, che prendono atto non che “l’America è tornata”, come proclama Trump, ma che è tornata a casa sua. E da lì progetta di concordare con le altre grandi potenze nucleari una nuova spartizione del mondo. Le scelte di Germania e Regno Unito sembrano prefigurare, una volta messa in sicurezza l’Ucraina e con lei Polonia e paesi baltici, uno scenario inedito. Una nuova alleanza atlantica, magari. Ma senza più sudditi e regnanti. “Se non c’erano gli americani, a quest’ora noi eravamo europei”, diceva Giorgio Gaber.