Dopo l’omicidio Kirk il perenne spettro della guerra civile inquieta l’America

A photo of Charlie Kirk, the CEO and co-founder of Turning Point USA who was shot and killed, stands at his vigil, Thursday, Sept. 11, 2025, in Orem, Utah. (AP Photo/Lindsey Wasson) Associated Press/LaPresse

Nessuno dovrebbe morire per una causa, eppure l’assassinio di Charlie Kirk è la testimonianza più agghiacciante del collasso del dialogo nella società americana. Un Paese diviso che considera la violenza politica, persino l’omicidio, non come aberrante ma come parte del dibattito democratico. Questa tragedia costringe a guardare alla radice della degenerazione culturale che ha trasformato i campus universitari in arene conflittuali, sempre meno verbali e sempre più mortali.

Non si può ignorare il ruolo della sinistra radicale che, con linguaggi infuocati e pratiche di delegittimazione, ha contribuito ad avvitare la civiltà politica. Quando a uno studente conservatore si urla «fascista», o a uno studente israeliano «nazista», invece di opporre controargomentazioni, si coltiva un terreno dove l’altro non è interlocutore ma nemico da abbattere. Il campus non è una giungla, ma troppo spesso lo sembra: boicottaggi, insulti, richieste di annullamento degli eventi sostituiscono il confronto e normalizzano l’odio.

E non vale l’argomento secondo cui anche la destra trumpiana avrebbe contribuito a incendiare lo scontro. La retorica di Donald Trump, le accuse a traditori e nemici interni, i toni apocalittici dell’«America sotto assedio» si sono semplicemente adeguati alle regole del gioco in cui la contrapposizione politica diventa esistenziale. La demonizzazione reciproca è ormai trasversale: non solo la sinistra cancella l’avversario, ma anche la destra si presenta come assediata e pronta a rispondere con la stessa durezza. Così, quando la dialettica politica si riduce a un grido di guerra, il passo verso la violenza diventa breve. L’assassinio di Charlie Kirk segna un salto verso un futuro che somiglia ai prodromi di una guerra civile.

Nato nel 1993 ad Arlington Heights, Illinois, Kirk aveva lasciato il college per fondare Turning Point USA nel 2012, un’organizzazione che mirava a formare giovani conservatori in centinaia di campus. Con il format «Prove Me Wrong», TPUSA cercava il confronto, spesso acceso, ma sempre pubblico. Carismatico, capace di mobilitare i giovani e influenzare direttamente il GOP e Donald Trump, Kirk è diventato il bersaglio perfetto. Un colpo sparato da un edificio a duecento metri di distanza ha trasformato un campus universitario in un teatro di morte. Le università non sono più spazi protetti, ma specchi deformanti della polarizzazione nazionale.

Nei campus le armi dovrebbero essere vietate. Eppure un fucile di precisione ha raggiunto il suo bersaglio senza che nessuno potesse impedirlo. È la prova che norme e controlli non bastano, e che la volontà di uccidere trova sempre un mezzo per esprimersi. La tragedia di Utah Valley University mostra che alla fragilità del dialogo politico si somma quella delle istituzioni di sicurezza, incapaci di difendere persino i luoghi dell’apprendimento.

L’America non può restare spettatrice del proprio sfascio. Serve un patto per il dialogo: le università devono tornare a essere palestre di libertà, non arene dell’odio. La sinistra deve chiedersi se la cancellazione delle voci diverse non costi più della vittoria momentanea; la destra deve rinunciare al linguaggio da crociata che avvelena il clima. La libertà di parola esiste solo dentro regole condivise e un limite invalicabile: la rinuncia alla violenza.

L’assassinio di Charlie Kirk non è soltanto un atto politico. È il segnale che qualcosa si è definitivamente rotto. Sta a noi decidere se ripararlo, o lasciare che rifletta per sempre un’America capace di parlarsi soltanto con il linguaggio della violenza.