E così Netanyahu diventa un nuovo Hitler. Ostaggi o libertà? Il bivio doloroso per Bibi

Nel libro “Testimoni di un secolo”, Ugo Intini parla di un incontro con Shimon Peres – con cui aveva intessuto un lungo rapporto di amicizia – e ricorda di avergli rivolto una domanda: “Sei sicuro che il senso di colpa per la Shoah possa consentire in eterno agli israeliani di fare ciò che agli altri non è consentito?”. E descrive la faccia del suo interlocutore, “avvolta di tristezza”. Io non concordo con l’autore, perché non mi pare che Israele abbia mai abusato del senso di colpa degli europei; tuttavia, prendendo come punto di riferimento la domanda, verrebbe da dire che dopo il 7 ottobre e gli eventi che hanno seguito quella tragica giornata è finita ogni possibilità per lo Stato ebraico di avvalersi del credito acquisito con 6 milioni di morti. Anzi, siamo arrivati al punto che Israele viene accusato di “genocidio” nei confronti dei palestinesi, come se le operazioni militari nella Striscia di Gaza saldassero il conto con la storia e – perché no? – anche con i regimi nazifascisti del secolo scorso, dal momento che lo Stato ebraico viene accusato di comportamenti analoghi inflitti alle “vittime civili innocenti” di Gaza e dintorni. E Benjamin Netanyahu, detto Bibi, diventa un nuovo Hitler.

Ormai gli ebrei non sono più nemmeno titolari del Giorno della memoria: il 27 gennaio, da quando si è riaperto il conflitto in Medio Oriente, è stato requisito dagli amici di Hamas, si inneggia alla Palestina libera dal fiume al mare, si sventolano i drappi palestinesi e si costringono gli ebrei a chiudersi in casa per non creare disordini, perché la loro presenza (si pensi al caso della Brigata ebraica) costituirebbe una provocazione. E i (presunti?) misfatti del premier e del suo governo ricadono su tutti i cittadini e le istituzioni di Israele, persino sugli ebrei della diaspora.

In Italia anche il governo e la maggioranza di centrodestra hanno saltato il fosso della condanna di Israele, consentendo alle opposizioni (che hanno toccato il fondo del disonore) di criticare sia il ritardo sia l’ambiguità con cui la maggioranza si è mossa. Perché non ci si salva l’anima dando un colpo al cerchio e uno alla botte, ovvero intimando a Israele di fermarsi, ricordando, però, che tutto è nato dal pogrom del 7 ottobre, e denunciando le responsabilità di Hamas. Perché se è vera – e lo è – la seconda parte del discorso, non è sensata la prima. Perché mai Israele dovrebbe fermarsi se non ha ancora conseguito gli obiettivi dell’azione militare di risposta al massacro dei civili nei kibbutz? Non ha liberato tutti gli ostaggi e non ha vinto la guerra.

Netanyahu ha sicuramente delle gravi responsabilità. Contro il suo popolo prima di tutto. Al potere da molti anni, la sua amministrazione non si è accorta che a un tiro di schioppo dai confini Hamas lavorava alla costruzione di una città sotterranea: un’opera che richiede anni di lavoro, traffici di automezzi, movimentazione di materiali e di manodopera. Un Paese che vanta i Servizi segreti migliori al mondo non è stato in grado di rivolgere quell’attenzione ai lavori nel sottosuolo che in una qualsiasi città della provincia profonda è il passatempo degli umarell. Come ha potuto il governo non prevedere un attacco – il 7 ottobre – in cui erano mobilitati mezzi e uomini armati, che devono necessariamente prepararsi in anticipo richiamando inevitabilmente l’attenzione? E come ha potuto consentire una sorta di rave party, con migliaia di giovani, nel deserto senza adeguate misure di sorveglianza e difesa?

Anche nella fase della reazione il governo israeliano ha seguito due obiettivi tra loro incompatibili: la restituzione degli ostaggi e lo sradicamento di Hamas nella Striscia. Questa linea di condotta ha proceduto a fasi alterne: il perseguimento del secondo obiettivo era condizionato dalle occasioni di negoziato attinenti al primo; così il mercanteggiamento sugli ostaggi è divenuto una polizza vita per Hamas, mentre cresceva l’isolamento di Israele in Occidente.

L’establishment israeliano ha sottovalutato la campagna mediatica con cui era stato preso di mira, come se stentasse a rendersi conto di quanto accadeva nel mondo e di come nazioni civili e amiche potessero farsi ingannare da una sequela di menzogne. Ha capito solo tardi che era finito il “tempo dell’innocenza” e che era ricomparso in superficie il fiume carsico dell’antisemitismo. Per Israele – sempre più solo – è il momento di fare una scelta. Un popolo che piange 6 milioni di morti deve mettere in conto il sacrificio di qualche decina di ostaggi per portare a termine il solo obiettivo che può garantirgli un futuro: la sconfitta totale di Hamas.