Distratti dal desiderio di capire che cosa e come sarà il Partito Democratico italiano, abbiamo perso di vista, e via via anche di interesse per la destra italiana, visto che ormai è al governo ed è trattata con la sciatteria rituale fra i rimpalli e le ripicche di una partita a tressette, con la curiosità aggiunta anche a livello internazionale per il fatto che l’Italia ha un presidente donna e sembra che tutti prima o poi vengano a constatare che si tratta effettivamente di una donna, anche se una parte della sinistra recalcitra nel concedere un tale riconoscimento perché “lo diciamo noi se una donna, poi è davvero una donna”.
Infine, c’è lui, Silvio Berlusconi, ormai un ideologo formatosi nei quattro governi che ha presieduto. Berlusconi batte sempre su certi punti, che ogni volta provocano un finto frastuono di proteste di pura liturgia da messale della “politica politichetta”, così sciattamente diversa dalla dura politica politicante della nostra bellissima prima e unica Repubblica, prima che i marziani arrivassero per ficcarci nel cervello i loro maledetti microchip. Solo oggi si vede bene come fosse funzionale la prima Repubblica: il governo era sempre lo stesso, ma ciclicamente ruotavano i ministri per soddisfare tutte le regioni e le tendenze, accogliendo quasi tutti come alleati, compresi i comunisti ai quali vennero riconosciuti ricmpense di grande rilievo benché non avessero ancora mai vinto le elezioni, come la Regioni nel 1970 e poi una Rai bellissima e tutta per loro, come la Terza Rete del geniale Angelo Guglielmi e del sindacalista Sandro Curzi, il cui Tg3 era chiamato scherzosamente “Tele Kabul”. Noi non lo sapevamo, ma alla fine degli anni Ottanta il mondo europeo e quello italiano in particolare stava planando su una piatta pax senza più guerra fredda e i comunisti che tanto avevano pazientato, finalmente al governo con il plauso di un Occidente che ne aveva le scatole piene dei democristiani e di parecchi socialisti. Però arrivò Berlusconi che con un colpo storico mise insieme tutte le forze fra loro nemiche ma unite nel rifiutare quel tipo di pace, e ne venne fuori il famoso “partito di plastica”. Certamente più di tipo americano, che europeo.
Ricordo benissimo quando capitava di incontrarsi nei primi anni Novanta e nessuno aveva dubbi sul fatto che il presidenzialismo blindato da un Parlamento forte, fosse un sistema di governo migliore di quello che la Costituzione, per paura di un nuovo Mussolini, aveva voluto. E che istituiva un capo del governo italiano pallido pallido, un presidente da assemblea di condominio. Ma tutto il potere di nomina e sostituzione dei ministri era, ed è affidato al solo presidente della Repubblica, il quale gode di una legittimazione democratica inferiore a quella di un sindaco, essendo stato eletto da una assemblea di eletti. Questo sistema raramente funziona e se un leader emerge, tutti si affrettano a fargli il servizietto fatto a Giulio Cesare. Di qui la banale proposta di lasciar scegliere ai cittadini il leader del loro Paese con l’adeguato gioco di pesi e contrappesi, che è molto efficace sia negli Usa che in Francia. E poiché questa non è un’idea “di sinistra,” anche se le sinistre sono in parte molto convinte, occorre un bacino elettorale ed intellettuali non di sinistra anche senza essere specificamente di destra, che facciano questa riforma. Il partito repubblicano americano è un partito strano: le sue radici sono libertarie, antischiaviste, è il partito di Lincoln e prima di lui dei federalisti come Alexander Hamilton che se non avesse saputo resistere ai duelli contro gli imbecilli avrebbe dato un impeto democratico ulteriore alla più giovane Repubblica democratica del pianeta.
A fondare il partito repubblicano furono gli antischiavisti Whig e del Free Soil con gli antimassonici e ex federalisti e democratico-repubblicani da cui staccò la costola di democratici per sostenere Andrew Jackson alle presidenziali del 1828. Diceva Roy Johnson, uno dei più mordaci repubblicani: “Noi siamo in buona parte gente di sinistra passata a destra perché a sinistra sono gretti e voraci, mentre a destra spesso mancano di fantasia”. Berlusconi ha ripetuto il suo progetto di creare un contenitore che non fosse soltanto una scatola vuota e senza finestre ma che contenesse un germe vitale capace di produrre il miracolo: restare tutti diversi ma producendo valore politico e consenso generale. Esiste qualcosa del genere in questo mondo? La risposta è sì ed è naturalmente il Grand Old Party che in Europa è più noto come partito repubblicano americano. che cosa ha di speciale questo partito? Intanto, il fatto che non è esattamente un partito ma una sorta di carovana cui si aggiungono nuovi viaggiatori e ne spariscono altri. È un partito conservatore? Sì, ma non soltanto. Il tratto fondamentale che rende questo partito vivo, vitale e spesso vincente sta nel suo libertinaggio ideologico.
Detto in modo molto semplificato, il Partito repubblicano americano è fatto sia di conservatori all’antica che di gente di sinistra delusa dal partito democratico. In Italia avevamo già assistito a questo fenomeno che la sinistra ha cercato di rendere illeggibile e nebbioso. ma quando Berlusconi “scese in campo” con la sua armata fatta di pezzi che non potevano e non dovevano stare insieme (come gli ex neofascisti di Gianfranco Fini e i federalisti secessionisti di Umberto Bossi), non venne fuori soltanto una somma di aggregati, ma uno spirito del tutto nuovo che attrasse in modo impetuoso gente assolutamente di sinistra come il filosofo comunista Lucio Colletti, Saverio Vertone, Lino Iannuzzi, Giuliano Ferrara che era stato il segretario del Pci a Torino nel periodo dello scontro con le Brigate Rosse e tantissimi altri fra cui buona parte dei socialisti che non diventarono comunisti fra cui chi scrive perché molti di noi avevano militato nella sinistra non comunista anche da posizioni molto radicali.
Questo patrimonio con gli anni si è perso. L’assalto dei 20 processi a Berlusconi e la sua ignobile cacciata dal tempio con l’uso di una legge retroattiva, spinsero gradualmente alla macchia milioni di elettori che non sono più tornati alle urne o che sono passati a miglior vita. La Lega federalista si è trasformata in un partito nazionalista in concorrenza con quello di Giorgia Meloni e alla fine si scopre che la somma complessiva degli italiani che votano a destra resta grossomodo costante, ma la qualità dell’offerta politica che viene loro proposta si è fatta sempre più modesta ricorrendo all’eccitazione su fenomeni drammatici e anche contingenti come quello dell’immigrazione dall’Africa. Che gli italiani siano nella loro maggioranza poco inclini alle rivoluzioni ideologiche lo sapeva perfettamente Palmiro Togliatti che quando da cittadino ancora sovietico sbarcò a Salerno durante la guerra per portare la lieta novella, annuncio che il partito comunista avrebbe cessato di essere un nucleo di ferro rivoluzionario e settario, per aprirsi specialmente a destra votando l’articolo 7 della Costituzione che confermando i patti lateranensi tra Mussolini e Vaticano mandò in bestia socialisti e liberali di varia famiglia; e lo aveva fatto anche prima rivolgendosi spregiudicatamente ai fratelli in camicia nera e poi ai monarchici di Badoglio promulgando quindi come ministro della Giustizia una vasta e deplorata amnistia per quasi tutti i crimini fascisti. Persino tutti i pittori modernissimi della Scuola Romana e che, salvo Mario Mafai e pochi altri erano stati entusiasticamente fascisti, furono generalmente sedotti da Antonello Trombadori, uno dei comandanti dei gap romani, condotti con altrettanto entusiasmo (salvo Mario Sironi fra i grandi) nell’orbita del partito comunista italiano.
Si potrebbe dire, alla rovescia, che il geniale leader del Pci aveva perfettamente capito che un grande partito capace di attrarre la maggioranza dei cittadini deve avere dei sapori, degli odori, delle idee e delle prospettive anche diverse e in conflitto fra loro. Quel che manca oggi nella destra italiana è la commistione, la ampiezza nel contenere che viceversa ha come primo esempio al mondo e il più funzionante proprio il vecchio partito repubblicano degli Stati Uniti d’America. Un partito che in Europa in generale – ma specialmente in Italia – non ha mai destato grandi curiosità ed è stato regolarmente bollato come un partito di reazionari, guerrafondai, militaristi cacciatori di streghe, gente ottusa e pericolosissima. mentre sopravvive la grande illusione veltroniana di un amor di partito come quello democratico di Joe Biden che per sua natura è tradizione e il partito dell’intransigenza ideologica cioè sostanzialmente della guerra fredda. E così sfugge alla maggior parte degli italiani che il Gop è stato il partito che ha portato Abraham Lincoln no alla Casa Bianca col proposito di abolire lo schiavismo mentre tutti i democratici erano solidali con gli schiavisti del Sud. E oggi quello stesso partito offre germogli di atteggiamenti e di idee che qualche volta fra loro fanno a pugni ma che costituiscono una panoplia di proposte, atteggiamenti, romanticismi, nostalgie che attecchiscono malgrado il gravissimo scontro fra Donald Trump e il resto del mondo.
Così in quella enorme e un po’ scapestrata famiglia repubblicana convivono i libertari (“libertarians”) che non vogliono saperne dello Stato centrale in nessuna forma, con i conservatori più tradizionalisti che tuttavia coltivano il mito di un’America land of opportunities, in cui ciascuno può realizzare il suo sogno americano. Alle antiche radici se ne sono poi aggiunte altre di matrice ebraica, cattolico-tradizionalista e anche apertamente atee, o di rifiuto totale per qualsiasi conformismo di cui invece si è sempre più intriso il partito democratico. Se in Italia si desse vita a un partito dalle pareti larghissime come quello repubblicano americano, in grado di raccogliere novità e fermenti per nulla reazionari e indispettiti, ma liberi e liberali come la maggior parte degli italiani in fondo sa di essere, quel che potrebbe attrarre, non sarebbe certamente la banale somma aritmetica di voti, umori e malumori che oggi nutrono i tre partiti della maggioranza (specialmente le posizioni irritate di Lega e FdI) potrebbe confermare i suoi principi e tuttavia fare una aperta concorrenza a una sinistra che non sa se sia meglio cercare prima un’identità o prima un leader, e il leader sia preferibile che venga dal famoso “territorio” oppure dal mondo delle idee organizzate e organizzative, all’uso antico.
Il fatto che il Parlamento esprima oggi una netta maggioranza di centrodestra non è nuovo: i governi di centrodestra Berlusconi presidente sono stati ben quattro, ma dopo il suo silenziamento (attraverso strumenti giudiziari e non politici) non si è evoluta oltre la messa a regime di tutti i mal di pancia collezionabili dall’attualità e che vanno dall’allarme per i clandestini alla resistenza reazionaria e isterica ai vaccini, nutrendosi di malumori settoriali quasi sempre giustificati dalle emergenze di questi anni, dalla crisi energetica all’inflazione, dalla mancanza di posti di lavoro alla scomparsa di un certo tipo di lavoratori soddisfatti del reddito di cittadinanza che purtroppo non è un reddito per tutti i poveri ma solo per alcuni. Tutti i conservatori oggi sono a favore di un reddito per chi è povero, sia per dovere umanitario (“the benevolent conservatorism” in America), sia perché una società senza poveri in sofferenza, tende a rigenerarsi con vantaggio di tutta la società. L’ala liberale del movimento costituita da Forza Italia. anche se trova momenti di dissenso come quello della capogruppo al senato Licia Ronzulli sulle Ong dopo il primo Consiglio dei ministri, ha di fronte un territorio politico arido, fremente di nervosismi ma non di progetti e perfino cupamente incapace di esprimere l’umorismo che ha sempre unito la vena dei conservatori ribelli come l’inglese Pelham Grenville Woodhouse o l’americano Tom Wolfe, inventore del termine “radical chic”.
