Emergenza educazione: dagli invalsi studenti sempre meno preparati. Cresce l’esigenza di un progetto educativo

L’Italia ha un’emergenza più profonda di altre: no, non sono le questioni giudiziarie di questo o quel politico e neppure la spartizione dell’eredità di Silvio Berlusconi. La vera emergenza si trova alla lettera E e più precisamente alla voce Educazione: una parola sparita dal vocabolario della politica italiana. Eppure i dati sull’apprendimento degli studenti italiani raccolti nel rapporto Invalsi 2023 ci proiettano un futuro di ignoranza e scarse competenze per la metà di loro.

Cioè dei futuri lavoratori, manager, politici, cittadini attivi del nostro Paese. La metà dei ragazzi esaminati evidenzia lacune significative in italiano e matematica, con un ulteriore peggioramento rispetto al periodo pandemico. La scelta di chiudere la scuola più a lungo che nella gran parte degli altri stati europei (e non solo) durante le restrizioni dovute al Covid, continua a mostrare i suoi effetti negativi.

Andiamo per ordine. Nella scuola primaria (le vecchie ‘elementari’) viene evidenziato un indebolimento generale dei risultati in tutte le discipline e in entrambi i gradi considerati (II e V), rispetto agli anni precedenti. Le performance in italiano e matematica sono più basse rispetto al 2019 e al 2021, e in linea con il 2022, mentre i risultati del 2023 sono inferiori a quelli degli anni precedenti in tutte le materie, incluso l’inglese (sia lettura che ascolto). Fa scalpore che si segnalino divari territoriali già dalla II primaria, soprattutto nel Mezzogiorno, influenzando negativamente i gradi scolastici successivi.

Per la scuola secondaria di primo grado (le ex ‘medie’), nonostante si sia arrestato il calo degli apprendimenti in italiano e matematica tra il 2019 e il 2021, non si registra una decisa inversione di tendenza, mentre gli esiti di inglese migliorano, mantenendo però forti divari territoriali.

Nell’ambito della scuola secondaria di secondo grado (quelle che un tempo erano le ‘superiori’), si evidenzia un declino generalizzato dei risultati di apprendimento nelle classi seconde. Per le classi più avanzate, i dati del 2023 suggeriscono che il calo osservato in italiano e matematica tra il 2019 e il 2021 ha subito un rallentamento: ma pur sempre di calo si tratta.
La nota positiva arriva dall’apprendimento della lingua inglese, che mostra un progressivo e generalizzato miglioramento sia nella lettura che nell’ascolto. I maligni, osservando gli altri dati del rapporto (quasi tutti negativi), affermano che ciò sia dovuto in prevalenza alle attività extra-scolastiche che i nostri figli e nipoti svolgono nella quotidianità.
Anche sulla dispersione scolastica non c’è da stare allegri, benché si registri un lieve miglioramento.

INVALSI

La dispersione scolastica implicita – quella relativa agli studenti che terminano il ciclo di studi senza possedere le competenze di base necessarie – si è fermata all’8,7%, in calo di un punto rispetto al 2022. Nel 2019 la dispersione scolastica implicita si attestava al 7,5%, ed era salire al 9,8% nel 2021, sotto gli effetti della pandemia. Nel 2022 si era già osservata una leggera inversione di tendenza sia a livello nazionale, passando al 9,7% (‐0,1 punti percentuali).
Facendo una stima complessiva della quota di studenti che che abbandonano la scuola e quelli che la completano senza le necessarie competenze, il dato dovrebbe scendere al 10,4% entro il 2025 (contro il 12,7% del 2022): in linea con l’obiettivo fissato dal PNRR (10,2%).

Al netto delle pochissime venature positive, l’ossatura del Rapporto Invalsi getta un’inquietante ombra sul futuro. Quando un maturando su due finisce le ‘superiori’ senza competenze sufficienti in italiano e matematica, quando alle elementari un bimbo su 3 non sa la matematica e quando si accentuano sempre di più i divari territoriali, non bastano più i commenti scandalizzati come quello del ministro Valditara, che definisce “non più accettabile” questa situazione. Da ormai dieci mesi il ministro è lui.
Servono le azioni e occorre attuarle con urgenza. Lo sottolinea Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi: “Dobbiamo prendere atto che la didattica prevalente è ancorata a un paradigma risalente a un secolo fa e che il modello organizzativo della scuola risale a una configurazione elaborata cinquanta anni fa”. Dunque occorrere un intervento radicale che, ipotizzando di introdurlo a partire da oggi, mostrerebbe i suoi effetti tra una generazione: un tempo troppo lungo per la politica di oggi, preoccupata più delle prossime elezioni che delle prossime generazioni (mostrandosi abilissima nelle citazioni di De Gasperi, ma non altrettanto nell’applicarne gli insegnamenti).

“La scuola opera sulle persone, accompagnandole e supportandole nel loro processo di crescita – ribadisce Giannelli -. Si tratta, però, di un percorso di cui solo a distanza di tempo si vedono e si valutano i risultati. Investire sulla scuola, con modifiche incisive, significa generare, sul lungo termine, un elevato rendimento per la collettività”.
Servirebbe, dunque, avere un Governo con la forza, il coraggio e la lungimiranza di realizzare un progetto educativo di lungo periodo, sfidando anche l’impopolarità se necessario. L’ultimo tentativo in tal senso fu la riforma della “Buona scuola”, solo in parte realizzata e a cui si oppose la stessa Giorgia Meloni. Che oggi ha la possibilità di dimostrare qual è il disegno alternativo, se c’è: in fondo cosa potrebbe esserci di più ‘patriottico’ che realizzare un progetto che darà in futuro più strumenti, prospettive e solidità al futuro dei giovani italiani?