“È l’esperienza umana più incredibile che mi sia mai capitata nella vita”. Rispondo così, sempre, a tutti quelli che mi chiedono cosa è per me fare il sindaco di Bari, la città in cui sono nato. Incredibile, sì, come lo è stato ogni singolo giorno di questi dieci lunghi, intensi, appassionati, imprevedibili, bellissimi e faticosissimi anni. Faticosi, certo. Terribilmente faticosi. Qualcuno, influenzato dal luogo comune secondo cui chi fa politica è mediamente un furbo nullafacente a spese del contribuente, pensa che fare il sindaco sia una specie di passatempo rilassante e redditizio. Niente di più sbagliato. Fare il sindaco è un impegno quotidiano, che non conosce vacanze né permessi, che ti azzera le passioni private e ti assorbe completamente in una dimensione collettiva, tanto che spesso non riesci più a distinguerti dalla tua comunità. E che, dal punto di vista dei compensi, soprattutto nei piccoli comuni, non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello di un deputato o di un consigliere regionale, a dispetto delle enormi responsabilità previste dal ruolo.
Il sindaco lo fai perché hai una vera e propria passione per la tua città. Il sindaco lo fai se riesci a emozionarti insieme ai tuoi concittadini. Sembrano frasi fatte, ingenue o paracule. Ma è la pura verità. Io mi sono emozionato ogni giorno, in questi dieci anni da sindaco. Mi sono emozionato quando ho visto una madre, vedova, che provava a nascondere le lacrime davanti ai suoi figli, mentre gli consegnavamo le chiavi di una casa popolare attesa da anni. Mi sono emozionato quando un bambino, prima della sua recita di Natale, mi ha preso per mano, mi ha portato in disparte e mi ha chiesto: “Decaro, lo trovi un lavoro per il mio papà?”. Mi sono emozionato quando, in un riformatorio, due occhi di un ragazzo non ancora maggiorenne hanno cercato di incrociare il mio sguardo per farmi capire che lui era lì perché l’avevo denunciato io. Mi sono emozionato quando l’autista dell’azienda di trasporto pubblico mi ha mostrato il pollice in su, orgoglioso di guidare il suo primo autobus elettrico. E mi emoziono, sinceramente, tutte le volte che i miei concittadini mi danno l’onore di celebrare con il matrimonio, le loro storie d’amore.
Quando sei sindaco, ogni gioia e ogni dolore dei tuoi concittadini ti attraversa l’anima. Sogni e piangi insieme a loro, consapevole, però, di una responsabilità, insieme pesante e bellissima: tu non puoi fermarti. Tu devi trovare sempre la forza di andare avanti. Non puoi godere dell’inaugurazione di un’opera, di un nuovo servizio sociale, di una delibera innovativa. Devi pensare al prossimo passo, al prossimo traguardo, perché l’unico modo di vivere il presente, per un sindaco, è progettare, instancabilmente, il futuro.
Per farlo, ogni giorno, devi attraversare la tua città, fisicamente ed emotivamente. Dalle piazze appena pulite alle strade dissestate, dai quartieri della movida ai mercati rionali, ascoltando tutti, sempre. Perché la pratica dell’ascolto, questa parola ormai distrutta dalla retorica delle campagne elettorali, non finisce mai. Ascoltare, sempre, giudicare mai. Perché ogni storia ha una dignità, un passato che non conosci e un futuro ancora da scrivere. E ad ognuna di quelle storie, tu, sindaco, devi delle risposte. Anche quando non sarebbe, tecnicamente, compito tuo.
Nel gennaio di nove anni fa, dopo aver deciso con qualche tormento interiore (che il direttore di questo giornale dovrebbe ricordare) di candidarmi alle primarie per fare il sindaco, tirammo fuori dieci regole (che chiamammo, con un terribile gioco di parole “il Decarogo”) che mi sarei impegnato a rispettare in caso di elezione. La prima di queste era: “Non dirò mai «non è mia competenza»”. Ecco. Il sindaco, da un punto di vista amministrativo, ha parecchi limiti. Ma da un punto di vista emotivo, è una specie di figura mitologica, un po’ parroco un po’ capocondomino della propria comunità. E se qualcuno gli chiede qualcosa, che sia di sua stretta competenza o meno, ha il dovere di provare a dare una mano, anche solo ascoltando e dicendo una parola di conforto. Perché forse non sarà competenza del sindaco la sicurezza, o le politiche per il lavoro, o la sanità. Ma è competenza del sindaco avere cura della dignità della sua comunità. Che ha il diritto di trovare nel sindaco, sempre, un interlocutore attento, sensibile, appassionato. Capace di interpretare i sogni dei suoi cittadini e di provare a trasformarli in realtà.
Quando ancora ero assessore, con delega alla mobilità, del Comune, in una delle strade che costeggiano il mare, a Bari, vidi la ruota di una bici semi-distrutta, a terra, che girava a vuoto, nell’aria. Era la bici di una bambina che era stata appena investita da un’auto. Per fortuna, si sarebbe salvata di lì a poco, in ospedale.
Oggi al posto delle quattro corsie, c’è un lungomare pedonale. Al posto del grigio dell’asfalto, c’è il verde degli alberi. Al posto delle auto, ci sono ragazzi, anziani, famiglie che passeggiano. E che quel mare, per tanto tempo negato, possono raggiungerlo e toccarlo, invece che guardarlo dal finestrino.
Al posto di quella ruota che gira a vuoto, che non mi toglierò mai dalla mente, oggi ci sono mille ruote di biciclette che scorrazzano al sicuro sulla nuova pista ciclabile. Perché è vero, un sindaco non può cancellare un dolore, “non è di sua competenza”. Ma può far sì che da quel dolore possa nascere una storia nuova per la sua comunità. Una storia di civiltà, di speranza, di bellezza.
