I venti di guerra tornano a soffiare sul Caucaso. Ieri l’Azerbaigian ha lanciato quelle che ha definito “operazioni antiterrorismo” in Nagorno Karabakh, la regione contesa con l’Armenia. Le operazioni hanno coinvolto alcune roccaforti armene, con esplosioni registrate anche nella capitale Stepanakert. I separatisti hanno fornito un provvisorio bilancio degli scontri in serata parlando di circa 20 morti e diverse decine di feriti, tra cui dei bambini. Ma l’impressione è che i numeri siano destinati a cambiare nel corso delle ore.
Per Baku, la fine dell’attacco passa da alcuni punti essenziali. Il primo è il “ritiro completo” delle forze armene dal Nagorno Karabakh. Ma per Erevan non vi sono truppe dispiegate nella regione. Altre condizioni poste da Baku sono la resa di tutte le “formazioni militari armene illegali”, la consegna dell’intero arsenale in mano ai ribelli e il parallelo scioglimento delle autorità separatiste. In sostanza, la resa senza condizioni dell’Artsakh.
Il lancio dell’operazione da parte dell’Azerbaigian è l’ultimo episodio di una escalation che va avanti da mesi e che è il frutto di un conflitto mai sopito che risale ai tempi della dissoluzione dell’Unione Sovietica, con l’ultima inquietante fiammata nel 2020. Da alcuni mesi l’Armenia e le autorità della repubblica separatista lamentavano il blocco del corridoio di Lachin, stretto passaggio terrestre che rappresenta l’unica via in grado di unire l’enclave alla madrepatria permettendo l’arrivo di aiuti umanitari e di beni di prima necessità alla popolazione.
L’Azerbaigian ha sempre dato versioni contrastanti su quanto affermato dall’Armenia, ma nel frattempo le continue violazioni del cessate il fuoco si sono unite alle graduali lamentele da parte di Erevan sul mancato intervento delle forze di interposizione russe per bloccare le attività azere ed evitare che il passaggio di Lachin fosse oggetto delle mire di Baku. Una divergenza che è cresciuta nel tempo. Ed è proprio qui che entra in gioco il grande nodo geopolitico. Perché quanto accade nel fragile ecosistema caucasico ha radici ed effetti non solo locali, ma anche regionali e internazionali.
L’Armenia infatti è sempre stata protetta dalla Federazione Russa, tanto che Erevan fa ancora parte, insieme ad altri partner di Mosca, della Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, quella sorta di “mini Nato” eurasiatica che fa riferimento al Cremlino. Da alcuni anni però i rapporti tra Erevan e Mosca si sono sempre più raffreddati, giungendo al gelo degli ultimi mesi. La guerra del 2020 – che ha visto prevalere nettamente gli azeri – aveva dimostrato la fumosità del blocco, con la Russia che era di fatto rimasta a guardare le mosse dell’Azerbaigian considerato anche la forte partnership in campo energetico.
Inoltre la guerra in Ucraina ha indebolito sensibilmente lo scudo russo sul Caucaso. La regione ha sempre avuto una notevole importanza strategica per Mosca, ma il focus del Cremlino era (ed è) concentrato quasi esclusivamente sulla guerra a Kiev. Inoltre i rapporti tra il presidente russo Vladimir Putin e il grande sponsor delle ambizioni azere, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, sono apparsi sempre più solidi e strategici per il Cremlino. Mentre quelli tra Putin e il premier armeno Nikol Pashinyan si sono fatti sempre più difficili, al punto che l’Armenia ha realizzato nelle scorse settimane delle esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti, le “Eagle Partner”.
Una novità certo non di poco conto nello scacchiere del Caucaso. I numeri di queste manovre sono ridotti: si parla di circa 85 soldati statunitensi giunti in Armenia per addestrarsi con 175 militari locali per “aumentare il livello di interoperabilità delle unità che partecipano alle missioni internazionali di peacekeeping”. Questo è quanto ha riferito la Difesa di Erevan.
Tuttavia non sfugge che per un Paese legato da secoli alla Russia, lo sbarco anche di poche decine di militari Usa è un segnale politico forte, frutto della disaffezione da parte armena per i russi ma anche della difficoltà di Mosca di mantenere intatti i legami con i vecchi territori del suo impero. Non caso il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov aveva definito “deplorevole” la scelta armena, sottolineando l’allarme della Federazione per i “tentativi della Nato di infiltrarsi nel Caucaso meridionale”. La portavoce Maria Zakharova ha poi rincarato la dose accusando il governo armeno di aver creato “un terreno fertile per la politica ostile dell’Occidente contro la Russia”.
Nel frattempo nel Palazzo di Vetro è entrata in scena la diplomazia, con la speranza di bloccare sul nascere una guerra che rischia di innescare pericolose reazioni a catena. Pashinyan ha parlato con il segretario di Stato Usa Antony Blinken e con il presidente francese Emmanuel Macron e ha chiesto una presa di posizione di Russia e Onu. Parigi ha condannato con forza le operazioni di Baku, mentre l’Unione europea ha chiesto l’immediato avvio dei negoziati. Il Cremlino ha affermato di lavorare per un negoziato tra le parti ridimensionando le notizie sull’avvertimento da parte di Baku. Quest’ultima aveva assicurato di avere informato Ankara e Mosca sull’avvio delle operazioni. I peacekeeper russi in Nagorno-Karabakh hanno intanto avviato l’evacuazione dei civili. Scenario che secondo alcuni osservatori sarebbe il preludio all’abbandono della regione da parte degli armeni. La pressione sul premier Pashinyan, nel frattempo, aumenta di ora in ora.
