Le sirene dell’Occidente e l'avvicinamento della Cina
Il Caucaso chiama, il Cremlino non risponde: la rivolta di Prigozhin e la ‘debolezza’ di Putin, “impero russo” a rischio

La “rivolta” della Wagner ha gettato un’ombra di fragilità sul Cremlino. Ma se in tanti si interrogano sugli effetti all’interno del cerchio magico che circonda il presidente Vladimir Putin, a preoccupare la Russia è anche un altro fronte: le periferie dell’impero. Quei Paesi un tempo parte dell’Unione Sovietica e legati ai desideri di Mosca anche dopo la dissoluzione del blocco, e che potrebbero recidere il cordone ombelicale.
La questione è da tempo presa in esame dagli analisti occidentali e dagli strateghi russi. Gli Stati che fanno parte del Caucaso e dell’Asia centrale sono sempre apparsi – più o meno saldamente – parte di quel nuovo “impero russo” risorto nella lunga stagione di potere di Putin. Tuttavia, le certezze sembrano destinate a diminuire. Le vecchie repubbliche socialiste hanno iniziato a guardarsi intorno, attratte dalle sirene dell’Occidente, soprattutto sul fronte energetico e delle materie prime, ma anche da un progressivo avvicinamento della Cina, sempre più proiettata verso ovest con i suoi investimenti e i suoi asset strategici.
E se l’invasione dell’Ucraina aveva ulteriormente velocizzato questo movimento centrifugo dal “limes” imperiale, con i vari governi preoccupati dall’intervento militare di Mosca ma anche dall’isolamento, la ribellione di Evgenij Prigozhin pone ulteriori dubbi. La Russia è ancora quella potenza di cui fidarsi o su cui fare comunque affidamento sia dal punto di vista politico, che economico e militare? Dopo la marcia tra Rostov-sul-Don e Mosca, Putin è ancora un leader che può gestire pienamente il potere e che può farsi garante della tenuta degli accordi?
Il rischio, per la Russia, è che molti di questi governi periferici possano accelerare ulteriormente nel loro allontanamento dal Cremlino anche grazie alla rivolta di Prigozhin, o comunque che possano considerare ciò che è accaduto sabato scorso come un ulteriore allarme per sganciarsi dall’orbita moscovita.
Come spiega un commento di Foreign Policy, sembra difficile credere in cambiamenti repentini o traumatici. Tuttavia, va anche detto che la velocità con cui si muove la politica del (fu?) impero lascia spazio a dubbi. Un esempio arriva in questi giorni dal Caucaso, dove la questione del Nagorno Karabakh, tra Armenia e Azerbaigian, è tornata al centro delle cronache. Il segretario di Stato Usa, Anthony Blinken, ha invitato a Washington il ministro degli Esteri armeno, Ararat Mirzoyan, e l’omologo azero, Jeyhun Bayramov, per colloqui che conducano a una pacificazione.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha telefonato al premier armeno, Nikol Pashinyan, per definire la normalizzazione dei rapporti tra Ankara ed Erevan. Nel frattempo, le autorità separatiste dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh hanno affermato che in un ultimo bombardamento azero sarebbero morti quattro militari armeni. Dalla Russia, alleata dell’Armenia, partner dell’Azerbaigian e da sempre più che interessata alle sorti del Caucaso, tutto sembra però tacere.
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