Francesco Maria Talò, ambasciatore di lungo corso, è stato consigliere diplomatico di Palazzo Chigi con Silvio Berlusconi e poi con Giorgia Meloni. Per otto anni rappresentante italiano alle Nazioni Unite, ha partecipato a dieci Assemblee generali dell’Onu. Gli chiediamo perché gli analisti definiscono storico il discorso di Meloni a New York. «Perché è stato un discorso rivolto alla storia. All’Onu non si parla tanto ai delegati in sala, ma al mondo intero, e a lungo termine. Un buon intervento dev’essere manifesto e visione: e questo ha fatto la presidente del Consiglio, con parole scelte una per una, tutte sue. Ho vissuto una decina di Assemblee generali da dentro, anche l’ultima con lei, e so quanta tensione e scrupolo ci siano dietro: Meloni ha lavorato meticolosamente su ogni parola».

Un passaggio che l’ha colpita?
«Quando ha detto che viviamo sospesi tra guerra e pace. È un’immagine potentissima, che mi ha ricordato il grande romanzo di Tolstoj e il suo mondo oscillante tra vita mondana e battaglie napoleoniche. Così è oggi: mentre pensiamo a crescita e sfide quotidiane, siamo immersi in una guerra diffusa. Meloni riprende l’idea di Papa Francesco della “guerra mondiale a pezzi”, una formula che risale al 2014, l’anno del primo attacco russo all’Ucraina. Oggi quei pezzi rischiano di saldarsi, come ha avvertito anche il Presidente Mattarella».

L’aggressione russa è stata definita senza mezzi termini. Quanto pesa questa scelta?
«È un caposaldo. Meloni ha ribadito che l’attacco russo all’Ucraina ha riacceso focolai ovunque. Da lì ha costruito un collegamento con il 7 ottobre, altro pezzo della guerra mondiale a pezzi. Ha definito l’attacco ad Israele feroce e brutale, riaffermando il diritto di difesa dello Stato ebraico. Allo stesso tempo ha riconosciuto l’eccesso della reazione israeliana, perché Hamas – e lo ha detto con chiarezza – prospera sulle sofferenze dei palestinesi e potrebbe farle cessare liberando gli ostaggi».

Quindi un discorso di equilibrio?
«Direi un discorso che riconosce la complessità. Ricordo bene che Meloni già nei primissimi giorni dopo il 7 ottobre intuì che quella guerra rappresentava una trappola per Israele. Ha ripetuto che lo Stato ebraico deve liberarsene per confermarsi parte del mondo libero. Ma ha aggiunto che la pace non si costruisce con proclami ideologici. L’Italia, ha spiegato, non fa retorica: manda aiuti umanitari concreti a Gaza e sostiene soluzioni pratiche, come il percorso di due Stati e quindi anche il riconoscimento della Palestina, ma a due condizioni: la liberazione degli ostaggi e nessun ruolo per Hamas»

È emerso con forza il richiamo al diritto internazionale. È un tratto distintivo italiano?
«Sì. Meloni conferma le fondamenta costituzionali e diplomatiche del nostro Paese. Dice che le violazioni del diritto internazionale – con la svolta rappresentata dall’aggressione russa in Ucraina – sono la causa delle guerre. Il problema di oggi è che viviamo in una sorta di anarchia globale: regna la legge del più forte e non la forza della legge».

E secondo lei, come va riformata l’Onu?
«L’Onu, lo ha sottolineato Meloni, è rimasta fermo a 80 anni fa. Bisogna ripensare soprattutto il Consiglio di sicurezza. L’Italia sostiene da anni il gruppo Uniting for Consensus per una riforma democratica: non nuove gerarchie permanenti, che diventerebbero obsolete in pochi anni, ma un sistema dinamico. Mi piace descrivere la storia come film, non come una fotografia. Servono più membri non permanenti, più spazio all’Africa e all’Asia, e magari un seggio unico per l’Unione Europea. Il concetto di “permanente” contrasta con la parola storia».

Nel discorso sono entrati anche migrazioni, diritti e religioni. Come li ha letti?
«Meloni ha detto che i diritti dei migranti vanno riconosciuti, ma combattendo il traffico di esseri umani. Ha posto grande enfasi sulla libertà religiosa. E poi ha usato una parola sorprendente: umiltà. L’ha collegata all’Africa e al Piano Mattei, riprendendo anche progetti concreti come il Global Gateway dell’UE, il G7, la cooperazione con gli Emirati Arabi Uniti. Non solo sviluppo economico, ma giustizia e dignità, anche in un anno particolare come quello del Giubileo».

Il discorso si è chiuso con San Francesco. Che senso dà a questa scelta?
«San Francesco – cui deve il nome San Francisco, la città dove l’Onu è stata fondata, come ha ricordato Meloni – diceva che i combattimenti più difficili sono riservati a chi ha un coraggio esemplare. È un invito al coraggio, individuale e collettivo. Meloni ha costruito un discorso che alterna spiritualità, concretezza e visione. Da parte mia rilevo la necessità di partecipare a un appuntamento annuale che è molto più di un rito, con il Presidente del Consiglio e il Ministro Tajani impegnati in una girandola di incontri che hanno consentito di incontrare il mondo in pochi giorni. Pur criticando l’attuale sistema-ONU, dovremmo riconoscere che se l’ONU non esistesse, bisognerebbe inventarla. E oggi, forse, reinventarla».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.