Francia in crisi, Jozsef: “I Macroniani sono pronti a concessioni. Le urne e la destra estrema fanno paura”

«Il governo che potrebbe nascere richiama, in qualche maniera, l’alchimia macroniana del dialogo tra posizioni opposte su una base comune. Ma se riesce, è più per le circostanze che per la buona volontà delle parti». Eric Jozsef, corrispondente in Italia per Libération, osserva la crisi multidimensionale della Francia. Una crisi economico-finanziaria, che ha portato a quella di governo, da qui il lungo crepuscolo di Macron e il quale infine mette in discussione l’assetto dell’intera Quinta repubblica. «L’idea è di salvare il salvabile, non un vero ripensamento della visione politica».

Lecornu ha promesso un governo che arrivi alla fine dell’anno in modo da avere la legge di bilancio approvata. È stato ottimista o naïf?
«Lecornu dice che nel segreto delle stanze del Matignon i partiti cercano una soluzione. Appena escono allo scoperto, tornano su posizioni di intransigenza. Dichiarazioni a parte, è sicuro che la partita si giochi a sinistra».

Perché proprio a sinistra?
«Per entrare in nuovo governo, il Partito socialista ha i suoi totem da esporre agli elettori. Per prima cosa, vuole la riforma delle pensioni».

Ma si rendono conto che la riforma dello Stato sociale non è più rinviabile?
«C’è una parte ragionevole della sinistra e dei sindacati che sa di dover affrontare il problema. Ma non è questa la riforma adeguata. Cosa in parte vera, se si pensa ai lavoratori che hanno iniziato a lavorare molto presto, per chi conta 43 annualità, alzare la soglia a 64 anni significa imporgli altri due anni di lavoro».

Altro totem della sinistra?
«La giustizia sociale che deve sposarsi con quella fiscale. I socialisti chiedono che nel concorso al pareggio di bilancio siano chiamati in causa le imprese e i 1.800 cittadini più ricchi di Francia. La tassa Zucman (dall’economista Grabriel che l’ha ideata, Ndr) prevede un prelievo fiscale del 2 per cento sui contribuenti con un patrimonio netto di oltre 100 milioni di euro. Lecornu non si è esposto su nulla. Ma l’ex premier Elisabeth Borne ha lasciato intendere un’eventuale sospensione della riforma delle pensioni. Infine c’è una terza condizione imposta dai socialisti».

Ovvero?
«La poltrona di primo ministro».

Troppo ambiziosi?
«Quei macroniani che vengono dalla sinistra pensano sia meglio concedere qualche miliardo sulle pensioni, piuttosto che tornare all’elezione. Con il voto si avrebbe altra instabilità e il rischio che, alla fine, vinca l’estrema destra».

Ecco, appunto, cosa succede a destra?
«Per Marine Le Pen la situazione è favorevole. Soprattutto ora che i repubblicani si stanno comportando da irresponsabili. Edouard Philippe di fatto ha chiesto le dimissioni di Macron. Adesso, se il governo dovesse virare un po’ più a sinistra, la destra moderata convergerebbe su quella radicale. L’unione della destra moderata, gaullista, con la destra erede di Pétain non è mai successa».

Questa è una crisi politica che nasce da un’emergenza economica. Cosa sarebbe successo se non ci fosse stata la seconda?
«La prima sarebbe emersa lo stesso. È una polarizzazione che vediamo in tutta Europa».

La destra moderata tende ancora a destra. Questa è la vera novità in Francia.
«Torniamo alle presidenziali del 2007. Sarkozy chiama a sé gli elettori dell’allora Front national. Utilizza un linguaggio di una destra forte. Jean-Marie Le Pen perde già a primo turno e Sarkozy va all’Eliseo dopo aver battuto Ségolène Royal. Dopo di allora, Sarkozy sostiene Macron. Sembra che la destra repubblicana dialoghi con il centro macroniano. È quello che vuole Macron. Il suo piano è modernizzare la Francia, far dialogare forze politiche diverse su una base comune. Europa, politica estera, l’idea di un’economia liberale attenta al sociale. Ma il progetto genera reazioni opposte, soprattutto contro la sua persona».

Si va verso le presidenziali del 2027. Quale sarà l’eredità di Emmanuel Macron?
«La sua legacy è molto ridimensionata. Macron non ha creato un corpus ideologico e tanto meno un partito. C’è chi lo accusa di aver accentrato tutto a sé. Forse François Bayrou avrebbe potuto seguire il suo percorso, ma ha fallito già come premier».

La Quinta repubblica come ne esce?
«C’è tutto da rivedere. La Quinta Repubblica è pensata per avere due blocchi, destra e sinistra. Quando se ne aggiunge uno, s’inceppa l’ingranaggio. Servirebbe un compromesso parlamentare, ma tutto dipende dall’esecutivo».

Quindi da dove ripartire? Dal sistema elettorale?
«L’introduzione del proporzionale obbligherebbe i partiti a dialogare. Ma questo non risolve il problema del Presidente della Repubblica, che non è un arbitro come in Italia, bensì è un capo di stato legittimato dal voto diretto e, per alcuni aspetti, con poteri anche maggiori di quelli del Presidente Usa. Il problema è che, se sulla carta l’Eliseo è molto forte, all’atto pratico rappresenta una Francia che non può affrontare da sola le sfide globali. Il nostro Presidente della Repubblica deve pensare in chiave europea».

È una Francia emarginata come in Medio Oriente, dove nei negoziati su Gaza è rimasta in disparte?
«Tutta l’Europa è rimasta fuori dal processo di pace. E di questo bisogna riflettere. I nostri Paesi contano se riescono a muoversi insieme. Lo si è visto quando hanno accompagnato Zelensky alla Casa Bianca. Se ci fosse andato solo Macron, sarebbe stato inutile. Penso che al presidente francese resti ancora la forza far parlare l’Europa a una sola voce. Visto in casa ormai le attese sono deluse da tempo».

Però ha vinto un secondo mandato.
«La popolarità è sempre più rapida a sgonfiarsi. Hollande che, a tre settimane dalla vittoria, era già in caduta di consensi. Macron, dopo un anno di Eliseo, aveva i gilet jaune nelle strade».