Il piano presentato lunedì congiuntamente da Trump e Netanyahu alla Casa Bianca ha prodotto in meno di 24 ore alcuni cambiamenti significativi sia nella politica interna che nella politica estera israeliana.

Sul versante domestico, la disponibilità delle opposizioni (come Lapid, Gantz ed Eisenkot) ad approvare il percorso di pace alla Knesset ha annullato il potere di veto dei due partiti dell’ultradestra religiosa su cui si regge il governo. Per i ministri Smotrich e Ben-Gvir la priorità è sempre stata l’espansionismo di matrice messianica, ovvero l’annessione più ampia possibile di territori nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Per questo hanno criticato aspramente il sì di Netanyahu a Trump e denunciato quello che hanno definito un “fallimento diplomatico”. Questa accusa appare francamente paradossale.

Sino ai giorni scorsi, Israele era isolato dal resto del mondo e per alcune scelte criticato dagli stessi americani (per esempio i missili a Doha di cui Netanyahu si è scusato con l’Emiro del Qatar). Da lunedì, viceversa, si sta sviluppando un ampio consenso internazionale al piano presentato da Trump e da Netanyahu alla Casa Bianca. Hanno già aderito il Qatar, l’Autorità Nazionale Palestinese, la Giordania, gli Emirati Arabi, l’Egitto, l’Indonesia, la Turchia e il Pakistan. Il piano sancisce inoltre un punto molto importante che contrasta la narrativa corrente: a Washington è stato messo nero su bianco che non ci sarà alcun spostamento della popolazione palestinese dalla Striscia, e che chi lascia temporaneamente Gaza avrà il diritto di tornare.

A questo punto, Hamas ha a disposizione tre o quattro giorni per prendere una decisione di portata storica. A Doha sono in corso incontri frenetici tra i vertici di Hamas e rappresentanti al massimo livello della Turchia e del Qatar. È difficile fare previsioni per capire se il piano di Trump resterà sulla carta o verrà attuato sul terreno. Per quasi 20 anni (dal 2005 al 7 ottobre 2023) Hamas ha utilizzato la Striscia di Gaza per colpire con ogni mezzo Israele – definito dall’Ayatollah Khamenei e da una parte dei Fratelli Musulmani “cancro da estirpare”.

Hamas è giunto a un bivio: continuare con la sua barbarica ideologia del martirio e della morte o consegnare le armi a un contingente militare internazionale di soldati arabi e/o turchi, beneficiando peraltro di un’immeritata amnistia. Non ci resta che sperare in una resa onorevole dei miliziani di Hamas. È indubbio che la reazione di Israele al 7 ottobre ha superato la misura, ma è anche vero che questa sarebbe la prima volta in cui Hamas mette al primo posto la salvaguardia della vita dei civili palestinesi invece di utilizzarli come scudi umani a difesa dei loro tunnel. Una realtà di fatto che anche i più ferventi sostenitori della causa palestinese non possono negare.