Gaza, il dottore italiano che ha curato il piccolo Osama: “Ha una malattia genetica rara. La mamma e il fratello non erano denutriti”

A luglio la sua foto choc aveva fatto il giro del mondo. Il corpo ischeletrito, il torace scavato, le braccia esili. Ridotto pelle e ossa. Il dottor Simone Cesaro, direttore dell’Oncoematologia pediatrica dell’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona, rivela che il piccolo Osama è affetto da Leaky Scid. È una rarissima malattia genetica (finora riscontrata solamente in altri cinque bambini arabo-israeliani) che lo rendeva predisposto a gravi forme di denutrizione. Arrivato a Verona la notte tra l’11 e il 12 giugno dall’ospedale Nasser di Khan Younis, Osama pesava appena 9,2 kg. Adesso, grazie a un programma di nutrizione mirato, si avvicina ai 14 chili. Il 18 agosto è stato dimesso e sta tornando alla normalità insieme alla mamma e al fratellino maggiore, che invece erano arrivati in Italia senza presentare un quadro nutrizionale grave. La strada verso la guarigione completa è ancora lunga, certo, tra profilassi antibiotica, antifungina e antivirale. Ma ora Osama è salvo grazie anche alla macchina umanitaria con cui l’Italia si prende cura dei civili in pericolo.

Dottor Cesaro, partiamo da ciò che ci sta più a cuore: le condizioni di Osama. Sta meglio?
«Certamente, il bambino è in netto miglioramento, come è dimostrato dal progressivo aumento del peso, anche se non possiamo definirlo guarito perché, di base, ha un immunodeficit costituzionale».

Avete diagnosticato la Leaky Scid, una rara forma di immunodeficienza. Nello specifico, di cosa si tratta?
«Si tratta di un deficit presente fin dalla nascita riguardante i linfociti T, che sono cellule importanti del sistema immunitario per la difesa contro le infezioni, in particolare quelle da virus, protozoi e funghi. Il deficit non è totale (altrimenti sarebbe una forma grave, che è incompatibile con la vita e richiede il trapianto di cellule staminali emopoietiche entro i primi mesi di vita), ma rimangono dei linfociti T funzionanti che permettono una qualche difesa. L’espressione clinica e la gravità di una Leaky Scid dipendono dall’entità di linfociti T funzionanti per cui ci possono essere casi meno gravi o poco sintomatici e casi invece più gravi».

Eppure la foto del bimbo scheletrico, spiattellata in prima pagina, era stata presentata come la prova eclatante della carestia in corso a Gaza. Quindi la crisi umanitaria non c’entra nulla, o comunque ha avuto un impatto secondario su Osama…
«La crisi umanitaria può essere considerata più che una causa una concausa del grave deperimento del bambino, nel senso che non ha facilitato una diagnosi corretta più precoce del bambino (si parlava infatti, nei documenti di invio, di fibrosi cistica), e il limitato accesso al cibo non ha permesso una dieta adeguata alla diarrea cronica che il bambino presentava».

E infatti il fratello e la mamma del piccolo, che avevano vissuto le sue stesse condizioni ambientali, non presentavano un quadro nutrizionale grave. Come mai?
«I familiari, pur provati, non erano in condizioni di denutrizione; infatti anche questo è stato un elemento che ci ha indotti a pensare che il piccolo avesse qualche malattia di base importante».

Il bimbo potrà recuperare una situazione immunitaria normale o si dovranno somministrare cure intensive per correggere il deficit immunologico?
«In questo momento è presto per definire esattamente il programma del bambino. Come detto sopra, sappiamo che l’espressione clinica di una Leaky Scid è variabile. Adesso valuteremo se il recupero dello stato nutrizionale si assocerà anche a un miglioramento del suo deficit immunitario, altrimenti dovremmo considerare le cure intensive (trapianto)».

Come è stata organizzata la macchina umanitaria? Vi siete coordinati in stretto contatto con il Ministero degli Esteri?
«C’è un’organizzazione ormai rodata che dal Ministero degli Esteri passa a quello degli Interni e alla Protezione civile nazionale, che ha una sezione operativa per le emergenze. Il contatto con i singoli ospedali avviene attraverso la Regione, che individua fra le sue strutture sanitarie quelle più idonee a curare le varie patologie. L’organizzazione locale è stata realizzata dal nostro Suem 118».

Insomma, il lieto fine della storia dimostra che la rete italiana funziona e salva le vite. Dobbiamo essere orgogliosi…
«Dal punto di vista medico e sanitario, ritengo che tutto quello che è stato fatto per questo piccolo paziente a Verona sia motivo di orgoglio e soddisfazione. Il nostro impegno sanitario è di mettere sempre il paziente al centro e rispondere ai suoi bisogni, qualsiasi sia la sua provenienza. La Regione ha scelto l’ospedale di Verona e la mia Unità per curare questo paziente, ed è per noi un onore essere un centro di eccellenza della sanità veneta e italiana».