Li chiamavano “Peones” e la definizione è sopravvissuta sino a oggi. Erano quei parlamentari Dc eletti col solo compito di alzare la mano come partito comanda, senza mettere becco nelle scelte dei leader. Nell’ottobre del 1979 i peones si ribellarono all’improvviso e lasciarono l’intero vertice Dc sbigottito, silurando il candidato del segretario Zaccagnini, e del divino Andreotti, alla presidenza del gruppo parlamentare.
Il candidato era Giovanni Galloni, che tutti – scomparso Moro – consideravano lo stratega numero 1. Al suo posto elessero Gerardo Bianco, leader di quegli stessi anonimi peones, sbalzato d’improvviso al centro della scena politica. Era in Parlamento già da 11 anni. Ci sarebbe rimasto sino al 2008, saltando il turno nelle elezioni del 1994, dalle quali uscì una delle legislature più brevi della storia della Repubblica, e in quelle del 1996. La mancata elezione nel 1996 non è un particolare grigio da scheda biografica. Connota invece l’uomo e il politico. Ne illustra lo stile. Spiega senza bisogno di ulteriori discorsi la stima universale dalla quale era circondato. Quelle elezioni infatti le vinse l’Ulivo e Gerardo “Gerry White” Bianco dell’Ulivo era stato tra i padri fondatori.
Era segretario del Ppi, una delle due radici, con il Pds, da cui traeva linfa l’albero di Prodi. Come leader dei popolari avrebbe potuto candidarsi nel più sicuro dei collegi: decise invece di correre solo nel proporzionale. Alzi la mano chi è capace di citare un altro leader che, nella storia repubblicana, abbia scelto di esporsi senza paracadute (forse l’unica eccezione è D’Alema nel 2001). Gli andò male per colpa di quel diabolico meccanismo elettorale che era lo scorporo, restò fuori dal Parlamento e dopo qualche mese abbandonò anche la segreteria del partito, di cui restò tuttavia presidente. Sarebbe rientrato nel 2001, in tempo per aggiungere altre due legislature alle sette che già poteva vantare.
Quando mise al tappeto Galloni, che non era uno qualsiasi ma l’uomo forte della segreteria Zaccagnini, quasi un segretario ombra dello Scudo crociato, Gerry White aveva da un anno abbandonato la corrente “Base”, appartenenza quasi obbligatoria per un avellinese come lui (anche Galloni, comunque, che non era campanao, era della Base, corrente fondata da Marcora, erede di Dossetti). Bianco ea stato amico e compagno di studi alla Cattolica di Milano del concittadino Ciriaco De Mita, leader della corrente. Bianco però era contrario alla solidarietà nazionale, l’accordo tra Dc e Pci che segnò la seconda metà degli anni ‘70. Si spostò quindi verso la corrente di Carlo Donat-Cattin, sinistra sociale Dc però rigida nel bocciare ogni intesa col Pci.
Per tutta la vita, sino alla scelta di non aderire al Pd nel 2008, Bianco è sempre rimasto essenzialmente questo: un democristiano autonomista. Di lui, classe 1931, latinista, docente di lingua e letteratura latina, si diceva allora e si è poi tramandato nel tempo – nonostante le tante legislature, la guida dei deputati Dc nel 1979 e poi di nuovo nel ‘92, l’elezione al Parlamento europeo nel 1994, la presidenza del Ppi, la direzione del quotidiano Il Popolo nel 1994 e poi di nuovo nel 1999 – si diceva che era “un intellettuale prestato alla politica”. Forse perché, da gentiluomo, quale indiscutibilmente era, evitava gomitate e colpi bassi, strumenti considerati già allora quintessenza dell’agire politico. La questione la risolse lui stesso, in un’intervista del febbraio scorso: “Io metto in dubbio che sia un intellettuale. Ho coltivato gli studi, sono uno che ha moderatamente letto parecchi libri anche del mondo latino ma non mi ritengo un grande intellettuale. Ho fatto politica per tutta la vita, con grande passione soprattutto per la vita parlamentare”.
Politico Bianco lo è stato sempre, però anomalo, tanto più per un democristiano convinto quale era. Ricordandolo ieri sull’Huffpost Gianfranco Rotondi, che gli è sempre stato vicinissimo nonostante le opposte scelte di campo lo ha definito “un libero pensatore, cultore ossessivo dell’autonomia propria e degli altri”. Avrebbe potuto aggiungere anche “dell’autonomia del partito”. Quando il leader peone sbaragliò Galloni, i giornali scrissero che aveva vinto la destra e di destra Bianco fu considerato anche quando, nel luglio 1990, accettò di sostituire Sergio Mattarella, dimessosi dalla Pubblica istruzione con altri 4 ministri della sinistra Dc per protesta contro la legge Mammì che legittimava il duopolio televisivo Rai-Fininvest. Lui per la verità avrebbe preferito evitare anche quell’unica esperienza ministeriale nella sua intera biografia. Per costringerlo il segretario della Dc fece leva sulla moglie: “Non volevo andare a giurare ma mia moglie fu pregata da Forlani”.
Quanto poco fosse “di destra” Gerry White lo si capì nel 1995. Nella battaglia all’interno del Ppi, uno dei pochi scontri di partito che hanno davvero cambiato la storia italiana, Bianco non ebbe dubbi di sorta. Il segretario Rocco Buttiglione voleva schierare il Ppi a fianco di Berlusconi alla caduta del cui governo, pochi mesi prima, lo stesso Buttiglione aveva dato un apporto essenziale. Se il Consiglio nazionale avesse approvato la proposta, come tutti davano per certo, Berlusconi sarebbe tornato subito al governo e l’intero corso della seconda Repubblica sarebbe stato diverso.
Gerardo Bianco, con Mattarella, Bindi, Castagnetti e Marini, fu al centro del gruppo che rovesciò l’esito della votazione. Dopo la scissione, a quel punto inevitabile, fu eletto segretario. Bianco fu ulivista convinto, ma sempre contrario a cancellare l’identità e l’autonomia del partito cattolico. Aderì alla Margherita controvoglia e senza nascondere dubbi su una formazione che ammainava la bandiera del Ppi e dunque anche di quanto della Dc restava. Contrario alla nascita del Pd lo abbandonò subito dopo l’ultima elezione alla Camera, nel 2008, per passare al gruppo Misto.
