Gianni Agnelli osannato per il centenario della nascita, ma non ha mai chiesto scusa

Le celebrazioni di Gianni Agnelli, specie quelle sui grandi mezzi di comunicazione, hanno costituito un fatto di costume e politico assai significativo, quasi a dar conto della cultura oggi prevalente nel Paese ufficiale, potremmo dire della cultura in esso egemone. Hanno sfilato i carri dei vincitori della grande contesa di classe del lungo dopoguerra italiano. Non si può fare a meno di pensare a Walter Benjamin che invitava a vedere, quando si guarda un arco di trionfo, anche chi è stato costretto a passarvi sotto e chi è morto costruendolo. Anzi, bisognerebbe saper guardare soprattutto a loro. Abbiamo assistito invece solo alla monumentalizzazione del carro del vincitore, cioè della personificazione dell’impresa capitalistica vincente. L’operazione è stata resa possibile dall’uscita di scena dei suoi contendenti, non solo dei manifestanti, spesso accompagnata da slogan come “Agnelli e Pirelli ladri gemelli”, ma soprattutto di quel popolo che sapeva usare con l’intelligenza della realtà le parole pesanti: padrone e operaio.

L’operazione culturale è resa possibile anche dalle caratteristiche originali del celebrato. Gianni Agnelli è stato esso stesso un ponte tra il moderno e il postmoderno. Ha dato avvio a molti dei connotati che sono poi rientrati a far parte della nuova politica e, più in generale, del nuovo corso. Il superamento della divisione tra pubblico e privato, la personalizzazione della guida, del comando, la possibile spettacolarizzazione di ogni vicenda, cominciano lì, anche se quel protagonista, diversamente dai successori, ha fatto come a trattenere, a nascondere la tendenza che pure con lui prendeva corpo. L’estetica ha informato di sé un certo modo di essere, le relazioni mondane, quelle internazionali, hanno dato conto di una personalità tipo e di un certo ambiente. Più estetica, meno etica e, in ogni caso, ad affermarsi è stata l’estetica delle relazioni scelte, quasi a sottrarre il protagonista alla durezza delle relazioni sociali che, però, nascevano proprio dalla sua impresa, la Fiat. Così Agnelli è di certo stato una figura prismatica, non riducibile a una sola faccia del prisma e, però, sempre leggibile nel suo insieme attraverso la sua stessa impresa, la Fiat.

Un imprenditore è socialmente e pubblicamente la proprietà di quell’impresa, ciò che essa produce, sia materialmente che in rapporti sociali. Agnelli ha confermato questa lettura col suo stesso comportamento. Egli si è sempre rapportato all’impresa come a una Chiesa o a un impero, glorificando nell’azione passata e presente, e lavorando alla sua continuità, facendo vivere sino alla fine la fallace formula del suo predecessore “ciò che è bene per la Fiat è bene per il Paese”, e negando o ignorando le sue colpe, anche quando sono state molto gravi, persino imperdonabili. Si diceva che vi si è rapportato come a un impero, come a una Chiesa, ma Papa Francesco ha avuto il coraggio di chiedere perdono a coloro i quali la sua Chiesa aveva recato dolore e danno; Agnelli non ha mai chiesto scusa a nome della Fiat per la lacerazione di diritto e di umanità prodotta sul suo cammino. Non lo ha chiesto né alle 150mila lavoratrici e lavoratori, schedati illecitamente dall’azienda, né soprattutto a quegli operai iscritti alla Fiom comunisti che sono stati licenziati senza giustificato motivo, per pura rappresaglia politico sindacale. Resta una tela lacerata e la sua colpa.

La presunzione della identificazione degli interessi della Fiat con quelli del Paese, e la sua imposizione ai governi nazionali e locali, è stata falsificata dalla storia. I danni subiti dal Paese sono stati molto pesanti e ancora si fanno sentire. Si chiamava “modello di sviluppo”, quello trainato con pochi altri protagonisti dalla Fiat. Esso è entrato acriticamente nella società dei consumi e ci è rimasto fino alla sua crisi. L’intera mobilità del sistema è stata piegata al primato dell’automobile, le ferrovie e le vie di navigazione hanno pagato duramente la scelta prioritaria del trasporto privato su gomma. La Fiat è cresciuta, è diventata una dei principali produttori di automobili nel mondo e l’Italia è diventata uno dei primi cinque paesi industriali nel mondo, ma una migrazione biblica ha sradicato un popolo dalle sue terre, dalle terre del sud e ha aggravato drammaticamente la contraddizione tra il nord e il sud del Paese, mentre una barca di soldi pubblici sono entrati sistematicamente nelle casse della Fiat, secondo la regola della privatizzazione dei profitti e della pubblicizzazione delle perdite.

C’è qualcuno che ha potuto leggere i segni, le eredità delle responsabilità politiche di questa storia della Fiat nelle celebrazioni del suo leader? No, non se n’è vista traccia, ma così non si costruisce la coscienza di un popolo, che è anche la coscienza critica della propria storia. Al centro di questa storia c’è la fabbrica e al centro di questo sistema di fabbrica c’è, o meglio c’era, Mirafiori, la sua cattedrale. È stato un gigante industriale, con più di venti porte d’accesso, per le quali passavano 50-60mila lavoratori al giorno, una città. La straordinaria contestazione operaia, seguita alla rivolta studentesca e operaia del ’68-’69, ne ha rivelato tutta l’intollerabilità sociale e, con le sue lotte, con la conquista di un contropotere in fabbrica e con la contrattazione sindacale, l’hanno cambiata profondamente, prima che il ciclo ascendente del Movimento operaio nelle grandi fabbriche di tutto il mondo fosse rovesciato e quel mondo destrutturato strutturalmente e soggettivamente. Ma siamo alla Fiat, siamo a ciò di cui dovrebbe essere chiesto punto alla proprietà. La fabbrica è stata il cuore della contesa sociale, o meglio lo è diventata quando gli operai hanno guadagnato la loro forza. Qui, i problemi da affrontare per chi porti la divisa dell’azienda, sono due: uno interno, di modello; l’altro, di rapporti, quello con i lavoratori e il sindacato.

A pochi chilometri di distanza ci sono state la Fiat di Agnelli e la Olivetti di Adriano. Due modelli di fabbrica, due modelli opposti di organizzazione del lavoro e di relazioni sociali. Non si possono celebrare entrambi con la stessa enfasi, neppure del campo del partito dell’impresa capitalistica. O questo o quello. La Fiat degli Agnelli è stato il regno del fordismo-taylorismo, della parcellizzazione del lavoro, della gerarchizzazione aziendale, un modello protratto anche quando la critica teorica e pratica l’aveva investito e la contestazione operaia ne proponeva il superamento, persino sapendo indicare e sperimentare, proprio lì a Torino, un modello alternativo fondato sulla partecipazione operaia e sul suo rapporto con la scienza. La Fiat arriva alla robotizzazione, ma conserva il suo modello taylorista. La partecipazione conflittuale è stata l’ultima, efficace risposta operaia e la contrattazione sindacale ne è stata la traduzione.

La Fiat prima vi resiste, poi vi subisce, infine vi si adatta, ma senza mai uscire dal suo guscio e senza rinunciare al ricorso alla repressione, fino ai licenziamenti dei 61 nel 1979, un atto che aprirà la strada alla scelta dell’azienda di annuncio dei licenziamenti di massa nell’80. Qualche volta vincendo, come in questo caso, qualche volta perdendo, come quando dieci anni prima fu costretta dalla lotta dell’autunno a ritirare i licenziamenti antisindicali, provocando una delle più grandi manifestazioni di gioia operaia collettiva mai vista. La mancata rottura col vallettismo si spiega con un suo elemento incorporato anche in una storia necessariamente divenuta così diversa da essere quasi rovesciata rispetto a quello. La continuità di una concezione autoritaria della fabbrica, di cui sono stati l’espressione fisico-simbolica i suoi capi, non è mai venuta meno. Servirebbe allora l’adozione di una lente di classe per leggere e interpretare correttamente il prisma Gianni Agnelli.

Ma anche quella liberale dovrebbe essere ben più avvertita e dotata di capacità critica di ciò che ci hanno mostrato le celebrazioni dei giorni scorsi. Dentro queste griglie critiche si sarebbero potuti cogliere i lati positivi di una personalità complessa, senza doverli assolutizzare e dovendo metterli a confronto con tutto ciò che di negativo per il Paese quella storia ha espresso. Magari quelli che invece gli sono stati criticati, come l’accordo del 1975 sulla scala mobile, l’accordo chiamato Lama-Agnelli, andrebbe annoverato tra i fatti positivi. La stima reciproca tra i due leader peraltro non deve stupire, nella contrattazione ci si conosce e anche tra parti negoziali opposte si possono scoprire dimensioni più derivate dall’umano che dalla parte. Valse persino per il rapporto tra Costa, il capo della Confindustria dei durissimi anni Cinquanta, e Giuseppe Di Vittorio, il grande capo della Cgil del tempo.

Dovrebbe sovrastare questa dimensione particolare uno sguardo generale, in questo caso, quello sul ruolo pubblico di un protagonista della storia del Paese, a partire dalla sua condizione base, quella decisiva, quella di imprenditore e di leader del campo imprenditoriale. Fuori dalle celebrazioni osannanti, uno sguardo critico sulla figura di Gianni Agnelli sarebbe necessario per indagare i vizi, tanti, e le virtù, poche, della classe dirigente di questo Paese.