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Giudici e pm, gemelli eterozigoti: stessi ambienti, opinioni e prospettive di carriera. Così finisce l’imparzialità
Se sospendiamo per un momento il clangore della battaglia politica, vedremo confrontarsi attorno alla legge costituzionale che mira a disgiungere l’organizzazione dei magistrati tre distinte concezioni del giudice. La prima, di ispirazione illuministico-liberale, riscopre la assoluta centralità del valore della imparzialità, ne persegue la realizzazione la più prossima all’ideale e perciò tende a innalzare il requisito al vertice dell’architettura del «giusto processo» nella convinzione che ogni carenza anche minima di imparzialità non tanto alteri il delicatissimo equilibrio tra le forze del processo (accusa e difesa), ma – assai più – privi di significato tutte le altre regole e garanzie costitutive del rito penale. In altre parole, da questa prospettiva, è il processo stesso come categoria dell’esperienza sociale, destinata a suscitare fiducia nei cittadini e a promuovere l’accettazione della sentenza in capo agli imputati, che sta e cade a seconda che il giudice sia o meno imparziale. L’imparzialità preme talmente da anticiparne la soglia di tutela in modo che il giudice non solo sia effettivamente, bensì, prima ancora, appaia neutrale, equidistante, non animato dal desiderio di far prevalere una delle parti: conta pure l’immagine esterna, la parvenza di libertà da condizionamenti di sorta; interessa che l’esercizio delle funzioni non sia offuscato da legami con strutture potenzialmente in grado di influire sul contegno del giudice.
Corollario di tutto ciò è l’esigenza di apprestare garanzie sufficienti ad escludere ogni legittimo dubbio presso i consociati circa l’imparzialità del giudice, ad evitare cioè il rischio, anche soltanto astratto, che questi si comporti – più o meno consapevolmente – da alleato dell’uno o dell’altro dei contendenti. Questa visione muove dall’idea dell’umana imperfezione, che non bastino cioè le qualità personali del magistrato (discernimento, equilibrio, serietà, preparazione professionale e culturale) a frenare la naturale inclinazione di chi detiene poteri autoritativi a scivolare nell’abuso o nell’arbitrio.
Si comprende, allora, che un risultato di tale importanza venga rincorso con il massimo scrupolo, predisponendo la più ampia gamma di strumenti istituzionali idonei a rimuovere le situazioni che siano o possano sembrare di ostacolo ad un esercizio della funzione aperto all’ascolto delle ragioni della difesa, non aprioristicamente orientato a far prevalere le istanze del pubblico ministero; nella consapevolezza che la asimmetria di poteri a vantaggio del magistrato dell’accusa, intrinseca al processo penale, non vada accresciuta di un solo grammo, ma al contrario bilanciata nella misura maggiore possibile. Perciò la legge costituzionale approvata il 30 ottobre 2025 concentra l’attenzione sull’organo di governo autonomo dei magistrati, struttura che crea i maggiori rischi di condizionamento, dovuti all’appartenenza dei giudicanti e dei requirenti ad un corpo unitario amministrato dal medesimo Consiglio Superiore della Magistratura. La separazione ordinamentale è diretta a fugare anche solo il sospetto che la solidarietà con i pubblici ministeri nascente dalla condivisione di ambienti e opinioni, dalla comunanza di interessi e prospettive di carriera, possa far velo alla necessaria imparzialità dei giudici.
Sulla seconda concezione, di impronta aristocratica, non merita spendere molte parole. Basterà rilevarne la parentela con la terza di cui tra poco diremo e – più precisamente – l’attitudine a fungere non di rado da sua premessa spirituale. Vogliamo alludere alla visione sacerdotale del giudice-magistrato quale soggetto inscalfibile, imperturbabile, campione di virtù, obiettivo per posizione istituzionale, così compreso nel dovere di accertamento della verità da non lasciarsi minimamente sviare da qualsivoglia influenza esterna, come si conviene a chi è chiamato al compito supremo di decidere delle altrui vicende umane. Da questa angolatura, se il difetto di imparzialità non risulta addirittura impensabile, il sospetto in tal senso rimane quanto meno relegato a evenienza del tutto eccezionale e perciò non bisognosa del più vasto dispiegamento di rimedi a carattere preventivo o successivo. La separazione delle carriere, allora, è soluzione prossima all’oltraggio.
La terza concezione, che definiremmo del rispecchiamento, considera affatto naturale l’identificazione del giudice con il pubblico ministero; quasi non vede la differenza tra le due figure di magistrato. Compartecipe degli scopi di lotta contro la criminalità, degni del più alto plauso morale presso i consociati, il giudice è qui imparziale di riflesso, nel senso che non si hanno da temere squilibri in quanto ad essere imparziale è anzitutto il pubblico ministero protagonista principale della battaglia: poiché l’unico fine di quest’ultimo consiste nella ricerca della verità, l’organo dell’accusa è tenuto a risolvere i dilemmi tipici del giudice prima e a prescindere dal giudice (quali prove acquisire, investigando anche a favore dell’imputato; quando archiviare e prosciogliere). Nel pubblico ministero, in fondo, il giudice trova sé stesso. Un’idea perniciosa, che ha storicamente concorso al fallimento della riforma processuale accusatoria del 1987-’89, con il riconoscimento di pieno valore di prova agli atti d’indagine raccolti dal magistrato inquirente in spregio al principio del contraddittorio (1992). La separazione delle carriere, in quest’ottica, è operazione chirurgica che attenta alla vita di gemelli siamesi.
La caduta a precipizio del sistema accusatorio è figlia di quest’ultima concezione, che la Costituzione del 1948 non aveva smentito, perpetuando l’«atavica stortura» di designare come «autorità giudiziaria», indifferentemente, tanto il giudice quanto il pubblico ministero (Massimo Nobili). Il richiamo alla «terzietà» del giudice nel testo dell’art. 111 comma 2, riscritto mezzo secolo più tardi, ha determinato una sfasatura interna all’assetto costituzionale che attendeva dunque di essere ricomposta in sintonia con l’evoluzione della cultura giuridica e della coscienza sociale, distinguendo il pubblico ministero dal giudice sul piano dell’ordinamento giudiziario per allineare il nostro processo penale ai caratteri di una moderna democrazia, dove si postula il principio di parità tra accusa e difesa. Se la separazione si produrrà veramente saranno gettate almeno le basi di una più rigorosa tutela dell’imparzialità e, con essa, dell’auspicato ripristino del processo accusatorio perduto.
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