In Italia nel 2023 il dibattito politico si trasferisce nelle aule del Tribunale. È passata sostanzialmente inosservata la decisione della segretaria del Pd Elly Schlein, l’altra settimana, di incaricare l’ex vice presidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini di verificare se ci siano gli estremi per costituirsi parte civile nel procedimento penale per rivelazione del segreto d’ufficio nei confronti del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. L’udienza preliminare è prevista per il prossimo 29 novembre.
Ermini, avvocato di Figline Valdarno ed in passato anche vice procuratore onorario prima di essere eletto al Csm, ha ricoperto per molti anni il ruolo di responsabile Giustizia del Pd. Terminata la consiliatura lo scorso febbraio, era stato nominato nella segreteria nazionale dei dem. Nella sua veste di avvocato, Ermini è il legale della deputata Debora Serracchiani e del senatore Walter Verini. Il professor Mitja Gialuz, tra gli esperti che avevano scritto la riforma Cartabia del penale, rappresenta invece i deputati Andrea Orlando e Silvio Lai.
In una nota, Ermini e Gialuz hanno fatto sapere di essere stati autorizzati ad accedere al fascicolo e che all’esito dell’esame degli atti verrà valutata la costituzione di parte civile dei singoli parlamentari al fine di tutelare le prerogative connesse al loro ruolo. Per quanto riguarda la posizione del Pd, invece, si tratterebbe del “pregiudizio di una posizione giuridica collegata”. Per ironia della sorte, Ermini aveva rischiato all’inizio dell’anno di essere iscritto per rivelazione del segreto d’ufficio nella vicenda sulla divulgazione dei verbali degli interrogatori dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara riguardo l’esistenza della loggia Ungheria.
I verbali, consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Piercamillo Davigo, erano stati poi portati da quest’ultimo nella primavera del 2020 allo stesso Ermini nel suo ufficio a Palazzo dei Marescialli. Sentito come testimone nel processo a Brescia a carico di Davigo, in una deposizione a tratti drammatica, Ermini aveva affermato sotto giuramento, più volte incalzato presidente del collegio Roberto Spanò, di non averli letti e di averli immediatamente “strappati”. Spanò, infatti, lo aveva avvisato che se per caso avesse letto i verbali sarebbe incorso anch’egli nel reato. “Perché lì ha distrutti? – chiese Spanò – È come se volesse sbarazzarsi di una cosa imbarazzante”. Erano “copie da una chiavetta”, “non firmati”, “non volevo fare il megafono di Amara”, “era informato il procuratore Salvi (Giovanni, ex pg della Cassazione, ndr)”, “e se fossero usciti dalla mia stanza?”, “erano irricevibili”, “dovevo tutelare il Csm”, “l’autorità giudiziaria era stata informata”, le giustificazioni di Ermini allo strappo dei verbali.
Tornando, invece a Delmastro, a chiederne l’imputazione coatta è stata giudice del tribunale di Roma Emanuela Attura, toga progressista e segretaria distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati. La magistrata aveva respinto la richiesta di archiviazione motivata dalla Procura con l’assenza dell’elemento soggettivo del reato, ritenendo che Delmastro, consegnando i verbali avuti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al collega di partito Giovanni Donzelli, capogruppo alla Camera, non fosse stato consapevole della loro ‘segretezza’. Il caso era esploso lo scorso 31 gennaio quando Donzelli, intervenendo alla Camera, aveva rivelato il contenuto dei dialoghi tra l’anarchico Alfredo Cospito e due detenuti ristretti con lui nel carcere di massima sicurezza di Sassari riguardo la visita ricevuta dai quattro parlamentari del Pd. Donzelli aveva letto le frasi pronunciate da Cospito a Francesco Di Maio, camorrista, e a Francesco Presta, ‘ndranghetista, a proposito dello sciopero della fame che stava conducendo per protestare contro il 41 bis e che doveva diventare una battaglia “di tutti”, compresi quindi i detenuti della criminalità organizzata. Le conversazioni erano contenute in una relazione che la polizia penitenziaria aveva successivamente trasmesso al Dap e quindi a Delmastro.
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, appresa la notizia, aveva incaricato gli uffici di far luce sull’accaduto. Dopo aver premesso che tali colloqui non erano stati oggetto di un’attività di intercettazione ma solo di normale attività di vigilanza amministrativa, via Arenula aveva precisato che la natura del documento non rilevava contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati. Circa l’apposizione della dicitura “limitata divulgazione”, presente sulla nota di trasmissione della scheda e che aveva sollevato polemiche, rappresentava una formulazione che esula dalla materia del segreto di Stato e dalle classifiche di segretezza, trattandosi di una mera prassi amministrativa interna in uso al Dap e non disciplinata a livello di normazione primaria.
Il procuratore di Roma Franco Lo Voi e l’aggiunto Paolo Ielo, titolari del fascicolo, avevano inizialmente ritenuto che le carte inviate al Dap dovessero rimanere nel ristretto ambito ministeriale senza essere destinate all’esterno ed avevano ascoltato anche il direttore del Dap, il magistrato antimafia Giovanni Russo, il quale aveva spiegato che la relazione della polizia penitenziaria non fu inviata a Delmastro per ragioni d’ufficio, ma perché lo stesso sottosegretario l’avrebbe chiesta a più riprese, e con una certa “insistenza”, aggravando, dunque, la posizione del sottosegretario.
