Nei giorni scorsi alcune delle principali testate internazionali hanno riferito che l’Idf avrebbe ucciso circa 30 civili durante una distribuzione di aiuti a Gaza. La notizia, diffusa rapidamente in tutto il mondo, si è poi rivelata falsa. L’Ong coinvolta, la Gaza Humanitarian Foundation, ha smentito categoricamente, e le indagini ufficiali e i video dell’Idf mostrano che a sparare sui civili sono stati terroristi di Hamas, escludendo un coinvolgimento israeliano. Ma questo caso non è isolato. Ricordiamo la vicenda dell’ospedale Al-Ahli a Gaza, nell’ottobre 2023: una presunta bomba israeliana, poi smentita da indagini indipendenti. Ma intanto il danno era già fatto: un’accusa infondata rimbalza sui media globali, l’opinione pubblica si indigna e la verità emerge troppo tardi, senza riuscire a correggere l’impatto iniziale.
Alla base della disinformazione che circola su Israele c’è una strategia di propaganda portata avanti da Hamas. Se era già evidente in passato, lo è ancora di più da quando il gruppo ha perso il controllo sulla distribuzione degli aiuti umanitari. Non è Israele a dirlo, ma Hamas stesso: il 31 maggio 2025, il portavoce Osama Hamdan lo ha dichiarato apertamente. Da quando la GHF ha escluso Hamas dalla gestione degli aiuti, il gruppo ha reagito con minacce alle Ong e con una campagna di disinformazione; ha diffuso video del 2023 spacciandoli per attacchi israeliani recenti e ha accusato l’Idf di un “massacro” a Rafah, poi negato da immagini satellitari e dati biometrici. Il meccanismo è chiaro: meno controllo sugli aiuti significa meno potere, e Hamas risponde intensificando le fake news per riconquistare influenza. La vera domanda è se la strategia sia davvero efficace o se lo diventi grazie all’ampia risonanza che ottiene nei media occidentali.
I media internazionali spesso riportano le dichiarazioni di Hamas come fonti affidabili, nonostante sia noto che manipoli i dati. Al contrario, a Israele si chiedono prove dettagliate per ogni affermazione, come nel caso della BBC, che ha chiesto ulteriori evidenze anche dopo la diffusione del video Idf sul tunnel dove sarebbe stato ucciso Mohammed Sinwar. Questo atteggiamento rivela un pregiudizio implicito: Israele è trattato come colpevole fino a prova contraria. Non sono errori isolati, ma segnali di un antisemitismo strutturale, spesso mascherato da impegno umanitario, che confonde la voce palestinese con la propaganda di Hamas.
La campagna di disinformazione contro Israele ha conseguenze gravi e concrete. Anche quando le notizie vengono rettificate, il danno è fatto: l’idea che l’Idf compia stragi di civili si radica nell’opinione pubblica e continua a circolare. La disinformazione, infatti, genera più engagement della verità. Nel caso della falsa notizia sui 31 palestinesi uccisi, Al Jazeera, seguita da BBC e Reuters, ha diffuso la versione del ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas. Il racconto, accompagnato da immagini forti e testimonianze emotive, ha dominato media e social, dove parole come “massacro” si sono diffuse rapidamente. Le repliche dell’Idf e della GHF, pur supportate da video, hanno avuto scarsa visibilità e sono state riprese quasi solo da media filo-israeliani, spesso quando l’attenzione era già calata.
Ma l’effetto più grave di queste dinamiche è l’alimentazione dell’antisemitismo. L’ambasciatore Usa in Israele ha denunciato questa narrativa distorta, sottolineando che le fake news contribuiscono a creare un clima d’odio verso gli ebrei e ad aumentare gli episodi violenti negli Stati Uniti, come dimostrano l’attentato contro manifestanti pro-Israele in Colorado e l’uccisione di due giovani durante un evento presso l’Ambasciata israeliana. È tempo di spezzare il ciclo della disinformazione, prima che la verità diventi solo un’opinione.
