Nel periodo in cui andavo spesso da Roma a Foggia in treno, mi capitò di leggere l’assai interessante autobiografia di David Rockefeller, banchiere, fondatore della Trilateral e nipote di John Rockefeller, il monopolista della produzione e della distribuzione del petrolio negli USA tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, e dunque –facendo le proporzioni- ricco quasi tre volte quanto Elon Musk oggi.

Nel raccontare la sua vita agiata e produttiva, Rockefeller ricorda come inizialmente lui e i suoi fratelli e cugini trovassero “difficile” il meccanismo tipicamente anglosassone del trust messo in piedi dal nonno John: a prescindere dai pur rilevanti aspetti fiscali (cercare di ridurre il peso dell’imposta di successione) e privatistici (tenere lontani i creditori dal patrimonio separato dalle persone fisiche e messo nel trust), David Rockefeller rammenta come le regole decise dal fondatore fossero piuttosto severe, in quanto i suoi nipoti avrebbero potuto accedere ai redditi pieni che derivavano dal patrimonio complessivo soltanto dopo avere compiuto ben 30 anni di età, mentre prima di quella fatidica età la rendita ricevuta sarebbe stata molto più piccola.

Con il senno di poi Rockefeller banchiere apprezzava il meccanismo disciplinante insito nel trust stesso, in quanto i rampolli avrebbero trovato molto più difficile dormire sugli allori del patrimonio accumulato dal fondatore semplicemente in quanto non potevano spenderselo (anzi: spendere la rendita) se non in minima parte. Senza entrare nei dettagli giuridici inerenti il funzionamento di questo istituto, il punto che voglio sottolineare al di là dell’aneddoto è che in un paese come l’Italia si fa un uso molto minore del trust, non solo per l’ovvia ragione data dal fatto che esso è stato introdotto nel nostro ordinamento in tempi relativamente recenti, cioè nel 1992, ma anche –io credo/temo- perché un approccio vagamente calvinistico che consiste nel disciplinare i rami della propria discendenza finisce per cozzare con un’idea buonista di far godere immediatamente a figli e nipoti il benessere economico creato.

L’ipotesi di lavoro a cui mi viene da pensare è questa: è vero che la scarsa disciplina economica dei rampolli fa male a loro stessi e infine fa male alle imprese stesse, che con maggiore probabilità finiscono per essere vendute a soggetti stranieri, quando la rendita finisce o si assottiglia, e la scelta più naturale di tutte consiste nel trasformare il capitale in flaccida liquidità?

Riccardo Puglisi

Autore