I fratelli Strugackij, padri nobili della fantascienza russa di epoca sovietica

Pallido, rugginoso tramonto che non accenna a finire, mentre i profili sporchi della città medievale vanno componendosi di una decadenza assoluta.
Le frecce infisse nei cadaveri lasciati a marcire, per strada, o issati in complessi strumenti di tortura, e guerrieri in cotta di maglia e fango, fango ovunque. Con maiali che grufolano e pasteggiano e danzano e si sporcano.
Sono i granulosi fotogrammi del film “Hard to be a God”, diretto da Aleksej German e tratto dal romanzo “È difficile essere un dio”, dei fratelli Strugackij, padri nobili della fantascienza russa di epoca sovietica.

E proprio il romanzo, curato da Paolo Nori, torna meritoriamente in libreria in questi giorni, per i tipi di Marcos y Marcos che lo aveva già pubblicato nell’ormai lontano 2005. La prima pubblicazione in assoluto in Italia risale invece al 1989, quando uscì nella collana Urania della Mondadori.
La storia è una cupa riflessione su un dilemma etico che si incentra sulla funzione e sulla tragedia di Dio, motore invisibile, osservatore silente ma chiamato, per rigida consegna, a non intervenire nelle azioni che pure vede dipanarsi davanti i suoi occhi.
Siamo su Arkanor, un pianeta oscuro, plumbeo, caratterizzato da un feudalesimo distopico e dispotico, in cui oppressione, sangue e violenza rappresentano la quotidianità.
Si può essere ferocemente giustiziati perché si è capaci di leggere, gli intellettuali vengono torturati a morte e le loro membra esposte come simbolico e macabro monito, le donne, considerate streghe, vengono arse sui roghi; il clima è opprimente, sporco, malsano, spietati signori della guerra, come le Milizie grigie e gli Sturmovik e clan rivali si contendono la miseria e i panorami di inferno che contraddistinguono le malmesse città.

Su Arkanor, però, in incognito e simili a Dei, agiscono duecentocinquanta osservatori giunti dal pianeta terra, un pianeta terra in cui il comunismo è stato pienamente realizzato e ove si vive in pace e armonia.
Una idea, quella della colonizzazione pacifica dello spazio e dell’osservazione del cosmo attraverso un comunismo tecno-teurgico, caratteristica di certe correnti cosmiste che avrebbero largamente influenzato i piani spaziali sovietici e che presero avvio dal romanzo “La stella rossa” di Alexander Bogdanov, in cui viene immaginata la colonizzazione comunista di Marte.
Il compito degli osservatori è semplicemente quello di analizzare la società di Arkanor, le esistenze che la popolano, i conflitti che la tormentano, se possibile salvare artisti e letterati, senza però poter intervenire e senza prendere posizione sulle dinamiche istituzionali più rilevanti del pianeta.

Non tutti però sono riusciti nel corso dell’esperimento a rimanere fedeli alla consegna, perché la torrenziale mole di brutalità e di inaudite violenze perpetrate hanno condotto alcuni degli osservatori a rinfocolare ribellioni, sommosse e insurrezioni, finite tutte tragicamente represse nel sangue.
Ora è il turno di don Rumata, osservatore terrestre, creduto dagli abitanti di Arkanor un dio; dalla sua corona dorata in realtà vengono trasmesse immagini e registrazioni, direttamente al pianeta terra.
Sia nel libro che nel film, i toni sono pastosi, densi, paludosi, simili nella loro efferata staticità da cui ogni progresso sembra bandito alle macabre, sulfuree allegorie pittoriche di Bosch o di Bruegel. E come nel film, rallentato, raggelante, simile, nell’atmosfera ferma, al cinema di Tarkovskij o di Béla Tarr, anche il libro è complesso. Non si tratta di un romanzo di puro intrattenimento, né di un volume di mera fantascienza.
È una compiuta riflessione su cosa significhi essere ricercatori, e su cosa implichino autorità e potere. Come avrebbero spiegato poi gli autori, in alcune interviste, il romanzo non vede figurare i “progressori”, attori della marcia del progresso che avrebbero caratterizzato successive loro opere.
Qui il cardine essenziale è la consistenza dolorosa di una statica ricerca di informazioni e la difficoltà di mantenere equilibrio tra osservazione e partecipazione.