Tra Israele e Hamas, da che parte sta la Generazione Z? Non è a questa domanda che proverò a dare una risposta. Perché voglio stare lontano dalla dialettica del giusto o sbagliato, di qua o di là, da una parte o dall’altra. Ci sono persone più titolate di me per dirlo e fuggo da una dicotomia che semplifica fino a banalizzare tutto. E tutto possiamo permetterci, salvo che banalizzare l’attuale conflitto.
Ho pensato tanto se avesse senso scrivere su questa nuova guerra. Da quando è esplosa nuovamente, su Twitter, sui quotidiani, nei talk show, si è assistito al solito teatro in cui tutto vale e in cui lo spettatore o il lettore viene trattato come un ultrà, di quelli che anche quando la propria squadra ruba, trucca, segna in fuorigioco le danno ragione, la ritengono danneggiata o trovano il motivo per cui rubare, truccare o segnare in fuorigioco è cosa buona e giusta.
Ho pensato che a volte il silenzio è la cosa più opportuna e allo stesso tempo più rumorosa. Ho pensato che non potevo e volevo unirmi al coro di voci, contribuire al rumore e farne parte. Poi però ho visto i filmati dei ragazzi al rave. Ragazzi uccisi, trucidati, stuprati mentre ballavano. Ragazzi uccisi come mosche, colpi sparati a bagni chiusi dove si erano nascosti. Ho visto il fallimento dell’umanità, della dignità dell’essere umano.
Stiamo vivendo l’ennesimo conflitto a pochi chilometri da casa nostra, a distanza di un anno e mezzo dallo scoppio della guerra in Ucraina. Entrambi i conflitti sono i primi vissuti dalla Generazione Z. E sono i primi, per tutti, vissuti in presa diretta.
Le generazioni precedenti, infatti, sono passate attraverso guerre raccontate in modi diversi. Senza arrivare a chi la guerra l’ha combattuta sul campo ormai ottant’anni fa e pensando solo agli ultimi decenni, i Millennials sono cresciuti con le uniche immagini e voci dai campi di battaglia trasmessi dai telegiornali. Non c’erano social, non c’erano smartphone, non c’era Twitter: le uniche immagini e gli unici racconti arrivavano da giornalisti presenti sul fronte, che confezionavano servizi per i telegiornali. Così si è vissuto, ad esempio, il conflitto in Jugoslavia degli anni ‘90: un conflitto terribile, lungo, e a pochissimi chilometri dai nostri confini.
Che però, da quelle immagini e dal vederle sempre con i genitori, sembrava lontano, lontanissimo, geograficamente e non solo. Ma l’eccezionalità del tema, la straordinarietà del periodo erano ben presenti nella testa e nella quotidianità di tutti.
C’è stata poi la guerra in Afghanistan e in Iraq, dove social come Facebook e YouTube erano già realtà, spesso usate per la propaganda. È su quelle piattaforme che sono girati alcuni video di rapiti e sono state quelle piattaforme il luogo di ritrovo per gruppi terroristici locali e non. Ma anche in questo caso, il racconto predominante era riservato alla televisione che ancora una volta riusciva a trasmettere il senso di unicità di quel periodo, senza normalizzare una cosa che di normale non ha nulla. Gli adolescenti di oggi, invece, hanno accesso in presa diretta ai conflitti in essere. Lo raccontano da una parte, come spettatori purtroppo in prima fila di uno spettacolo a cui non hanno deciso di assistere, e lo subiscono dall’altra, come spettatori di un film in cui scene di coetanei uccisi si mescolano ai trend del momento.
Le luci delle bombe su Kiev, la corsa nei rifugi sotterranei o sui binari della metropolitana, il suono delle sirene sono stati tra i video più virali su TikTok allo scoppio del conflitto. Per la prima volta una guerra veniva raccontata in diretta, su un social, senza filtri e senza aspettare il montaggio di un servizio, da chi quella guerra la stava subendo o la stava combattendo. E allo stesso modo, i parapendii con i guerriglieri di Hamas, i ragazzi che scappano dal rave o la soggettiva dei bagni che diventano bersagli di un terrorista sono stato il racconto, crudo e spietato, di questo nuovo conflitto.
Social che diventano racconto crudo, propaganda, mezzi per reclutare soldati e terroristi, strumenti per influenzare milioni di persone anche lontane dal conflitto, seguendo le regole del marketing. Social che diventano protagonisti del conflitto, in grado di influenzarlo, di dettarne tempi e modificarne il racconto. Social che, ad esempio, sono sotto la lente di ingrandimento dell’Unione Europea che ha già chiesto a Musk e a TikTok di eliminare alcuni contenuti e di rafforzare la moderazione, o che vengono eliminati dai telefoni dei ragazzi su invito di alcune associazioni americane, diventando così vittime di una censura senza senso.
Non è da che parte stanno i ragazzi quello a cui dobbiamo pensare. È la loro capacità di capire le ragioni vere e storiche dietro al conflitto, di reagire e di non rimanere inermi davanti a scene di coetanei trucidati, la loro capacità di sentirsi parte e di capire che tra un trend e l’altro ci sono cose che meritano di fermarsi un attimo.
La risposta a un racconto diretto non è la censura, non è il limitare l’uso del mezzo, ma è il non normalizzare quello che si sta vivendo e vedendo. Perché certe scene non possono rimanere sui social. Certe scene non possono non sollevare indignazione o qualsiasi altro sentimento. Certe scene e il fallimento del futuro che stiamo prospettando a un’intera generazione meritano di più, da parte di chi adolescente non è più. Qualche domanda, qualche spiegazione, e tanto ascolto. Ma non di rendere normali scene che di normale non hanno nulla, a 16 come a 80 anni.
