Il caso di Tatiana (prima morta, poi risorta) e le bufale della stampa: la corsa al click che porta alle fake news

Tatiana “è stata morta” per alcune ore. Poi è tornata viva. Nel frattempo, accanto al dolore lancinante di una famiglia e alle invettive sull’ennesimo femminicidio, anche il rischio di un linciaggio. Una folla minacciosa si era infatti radunata sotto l’abitazione dell’amico rumeno. Chi avrebbe avuto sulla coscienza questo delitto? Difficile girarci ancora attorno. Con queste trovate da quattro like si diventa complici non solo delle fake news ma anche della possibile violenza che ne può derivare. Cosa deve accadere ancora perché la stampa italiana si risollevi dal delirio del fotofinish, dando credito alla prima voce incontrollata, rinunciando a verificare e capire, abdicando al ruolo tanto rivendicato dei giornalisti come garanti della verità?

Non è storia di oggi. C’è chi fa risalire la deriva al 1981, tragedia di Vermicino. Un bimbo nel pozzo in diretta tv e conseguente crollo della diga del pudore. E un quarto di secolo fa, febbraio 2001, il delitto di Novi Ligure, compiuto da Erika De Nardo con il fidanzato Omar, scatenò “la caccia all’albanese”, perché i due assassini avevano così cercato nelle prime ore di depistare le indagini. Ma oggi c’è di più e di peggio. Da almeno 10 anni la rincorsa del trash a fini di audience non riguarda più il solo duello fra carta stampata e televisione. L’irruzione dei social media, inizialmente benefica, è stata ben presto orientata dalla Silicon Valley verso l’amplificazione di paura, violenza, sesso. I riflessi istintivi dell’uomo sono continuamente sollecitati. Così, scatta la corsa a inseguirsi e anticiparsi. Così, la morte possibile o probabile di una ragazza sparita va comunicata subito, prima di tutti. Senza che nessuno blocchi la valanga per ottenere prima una conferma. Ciò che conta non è più la notizia, ma il post che segue e il diluvio di click. O meglio ancora, una card social dai contorni osceni: lei, il suo sorriso, il suo sangue.

Ieri molte testate chiedevano scusa a mezza bocca per l’enorme cantonata presa. Ma quando qualcuno chiede scusa dovrebbe anche garantire di aver capito il suo errore: la rinuncia al senso più profondo del giornalismo, fatto di rigore e verifica delle fonti. Pollicioni alzati e cuoricini oppure frasi gonfie di insulti e minacce, questo sembra oggi il motore del sistema. Ma l’obiettivo dell’informazione non dovrebbe essere, al contrario, imporsi per autorevolezza e affidabilità, portando i lettori a convincersi che una notizia è vera solo se confermata da quel giornale, quell’agenzia o quel tg?

Un minuto dopo la morte e la resurrezione di Tatiana, la slavina dello sdegno digitale riparte. Nel mirino, ora, ci sono i due ragazzi: “avete fatto soffrire una famiglia, vergognatevi!”. Fare presto, prima dei concorrenti, dei social, del vero. E fare male, più che si può: al politico inquisito, al divo, al povero cristo che ha sbagliato una mossa. È in questo deserto di pensiero che la tragedia è diventata format, e il linciaggio virtuale un obiettivo, indifferenti al rischio che diventi reale.