Il Coronavirus ha travolto politica e democrazia come in una eutanasia

Foto di repertorio

Dal microscopico grembo del coronavirus è uscita, come da una lampada di Aladino, la grande nube che tutto avvolge e opacizza, trasfigurando la realtà e chi in essa vive. La politica e la democrazia, che già non godevano di uno stato di grazia prima, sono state investite da un’onda che ne ha esaltato i potenti fattori di crisi, fino a travolgerle senza colpo ferire, come in una inconsapevole eutanasia. Sapevamo già dell’incompatibilità tra il capitalismo finanziario globale e la democrazia, avevamo già misurato come e quanto il paradigma della governabilità e la ricerca ossessiva – per quanto fallimentare – della stabilità avessero messo in crisi prima e compromesso poi la democrazia rappresentativa. Avevamo imparato che la crisi della grande politica e delle sue istituzioni concorrevano potentemente insieme a una gigantesca mutazione tecnico-scientifica, non fronteggiata criticamente, a destrutturare il popolo e a produrre solitudini e individualismo.

Accade ciò quando è la Chiesa ad abbandonare il popolo, se si può usare ora questa metafora per la politica. Studiosi che hanno indagato le nuove frontiere e le nuove forme di controllo sulle persone e sulle diverse realtà sociali ci avevano avvertiti della possibilità che, nella grande crisi, si generassero nuove e inedite forme di società autoritarie. Il campo della post-democrazia si presta, infatti, a comprendere forme tra loro assai diverse, accomunate tuttavia, da un tratto caratteristico: la demonizzazione del conflitto sociale e del dissenso politico e culturale. La replica della classe dirigente del Paese all’insorgere del coronavirus ci sta immergendo in una di queste realtà. L’esigenza di combattere questo concreto pericolo oscura dapprima la possibilità di esprimere giudizi sulle scelte che vengono compiute dall’autorità che poi le rende indiscutibili.

Il governo diventa progressivamente e inesorabilmente totalitario, almeno fino a una manifesta crisi sociale che è la rinascita del conflitto. L’intenzione si fa regime, una macchina che tutto macina, de-soggettivizzando i protagonisti e desertificando il panorama sociale. Le strade e le piazze della città, svuotate, diventano il panorama spettrale della nuova quotidianità. Sui due lati della tenaglia restano da un lato la malattia e dall’altra il controllo dei corpi, come di ogni agire individuale e collettivo. Della malattia si sono sempre occupati la scienza, la politica, la letteratura.
Quest’ultima, in una grande sequenza che va da Manzoni a Dostoevskij a Proust, da Verga a Thomas Mann, da Camus fino a Susan Sontag, ne ha presentato tutte le facce che compongono il suo prisma. Tra esse, c’è anche la lettura della malattia come un’occasione per l’anima, per la conoscenza di sé e dell’altro da sé.

È una ricerca che ci riguarda anche nell’oggi, ma che riguarda ogni persona. Le persone organizzate in società, di fronte a questa che è una minaccia, interrogano necessariamente la politica, cioè una replica ad essa come insieme, come Paese, come sistema. Quale politica sta nascendo di fronte a questa irruzione? L’interrogativo è di fondo e riguarda il destino della politica stessa nei nostri Paesi. Lo è tanto più quanto più le scelte appaiono ora necessitate. Perché proprio qui sta la leva del nuovo autoritarismo. Cosa sta accadendo, da chi e come sono prese le decisioni? Queste sono le domande necessarie. «Chi comanda qui?» – si chiederebbe Alice. Sono fuorigioco la democrazia partecipata, che lo è da gran tempo, e la democrazia rappresentativa.

La democrazia partecipata domanda un rapporto tra scienza ed esperienza che richiederebbe la presenza di un protagonista sociale forte. La democrazia rappresentativa richiederebbe, tra le altre cose, la centralità delle assemblee elettive e del Parlamento. Ma il governo è tutto e il Parlamento è niente. Convocato un solo giorno alla settimana nel tempo delle grandi scelte, adesso subisce pure l’onta di un dimezzamento. Per decisione unanime, per un verso incredibile, per altro “necessitata”, in aula invece dei 630 eletti dal popolo andranno solo, e per scelta politica, 350 deputati. Ma non dovrebbe ogni singolo parlamentare rispondere al popolo secondo la Costituzione? Lo Stato è persino grottesco. Ma dà conto della traiettoria calviniana in cui è stato imprigionato il Parlamento: da Barone rampante a Visconte dimezzato, a Cavaliere inesistente.

Fin qui, parliamo di chi cade sotto la scure dello Stato di necessità. Ma ci è stato spiegato che proprio chi dichiara lo Stato di necessità diventa il sovrano del nuovo regime. La tesi che qui si vuole sostenere è che in Italia, nella assai impegnativa vicenda della lotta contro il coronavirus, esso si stia costituendo al riparo dal concreto diffondersi del virus e dal modo con il quale vengono prese le decisioni, e da chi. Il processo in atto, quasi inavvertitamente ma sistematicamente, modifica la fonte della decisione che non è più la volontà politica di interpretare la volontà popolare, bensì le relazioni che intervengono in uno spazio tecno-politico, uno spazio di relazioni tra esperti e governanti reciprocamente legittimatesi.


Se non basta il governo centrale, valga il concorso con i governi locali, ma sempre governi, e, per gli esperti, valga il ricorso alle organizzazioni della comunità scientifica internazionale. L’intero sistema delle comunicazioni di massa viene allora reclutato in una sorta di diffuso embedded. La scelta è diventata così politicamente inattaccabile nella sfera istituzionale e le forze politiche sia di maggioranza che di opposizione vengono sospinte a radunarsi nello stesso spazio attorno al “già deciso” e a quel che si può decidere secondo compatibilità. Esse vengono indirizzate verso il governo più consono al nuovo assetto politico in formazione, quello in cui vengano banditi conflitti e critiche.

Ha un qualche peso il fatto che si stia affermando da noi il modello decisionale cinese. Da sinistra a destra, immemori tutti anche delle ragioni dell’anticomunismo democratico, sembra farsi strada il sogno cinese. La Cina è vicina. E la figura del super commissario può diventare la spia della provinciale invidia di un Xi Jinping «che ha il cuore puro come quello di un bambino e pone sempre il popolo al centro delle sue priorità». I contrasti tra governo e opposizione, che peraltro rispondono più a persistenti ragioni di schieramento che a ragioni propriamente politiche, stanno comunque dentro questa cornice. Quando il conflitto scoppia, come oggi nelle carceri, a indicare un gigantesco problema di società, drammaticamente irrisolto, esso viene relegato nella patologia, fuori dalla norma, quando invece esso è una spia che rivela la patologia della norma.

È la spia che questa società, la società della crisi, della diseguaglianza e della impossibilità permanente di accedere a una vita degna, non reggerà neppure l’assetto neo-autoritario della società d’eccezione. Allora bisogna cominciare fin da ora, dentro questo regime, a dire che il re è nudo e che bisogna organizzare pensiero e azione per un radicale cambiamento del modello generale di società. Giusto il contrario della volontà politica di tornare al pre-virus, quello della conservazione dell’esistente. Con questo pensiero di alternativa bisognerebbe saper rompere radicalmente nella politica, ora che la natura sembra ribellarsi a questo modello di società e ora che le conseguenze delle politiche di austerity hanno minato la capacità delle nostre società di reagire alla malattia, indebolendo il servizio pubblico dalla sanità alla scuola, malgrado le sue alte capacità ancora esistenti all’interno di resistenza e di azione sociale. Prima che sia troppo tardi.